FULCANELLI
IL
MISTERO
DELLE CATTEDRALI
DELLE CATTEDRALI
e
l'interpretazione esoterica
dei simboli ermetici
della Grande Opera
dei simboli ermetici
della Grande Opera
Terza
edizione ampliata
con tre
prefazioni di
EUGÈNE CANSELIET, F.C.H.
Scansione
Ettore Peluso
Corretto da filuc
(filuc@everyday.com)
EDIZIONI
MEDITERRANEE
La maggior parte delle
illustrazioni fotografiche sono di Pierre Jahan
Titolo originale dell'opera : Le
Mystère des Cathédrales - © Copyright
1964 by Jean-Jacques Pauvert, Paris - © Copyright 1972 by Edizioni
Mediterranee - Roma - Traduzione di Ferruccio Ledvinka - Copertina di
Giulia Marini - Printed in Italy - S.T.A.R. - Via Luigi Arati, 12 - Roma.
1964 by Jean-Jacques Pauvert, Paris - © Copyright 1972 by Edizioni
Mediterranee - Roma - Traduzione di Ferruccio Ledvinka - Copertina di
Giulia Marini - Printed in Italy - S.T.A.R. - Via Luigi Arati, 12 - Roma.
Ai
Fratelli di Heliopolis
PREFAZIONI
PREFAZIONE ALLA
PRIMA EDIZIONE
PRIMA EDIZIONE
Per il discepolo è un compito
ingrato e difficile presentare una
opera scrìtta dal proprio Maestro. Perciò, la mia intenzione non è quella d'analizzare in quest'occasione II Mistero delle Cattedrali, né di
sottolineare il bello stile ed il profondo insegnamento. Confesso umilmente la mia incapacità e preferisco lasciare ai lettori il compito d'apprezzare il libro, ed ai Fratelli di Heliopolis la gioia di raccogliere
questa sintesi, esposta così magistralmente da uno di loro. Il tempo
e la verità faranno il resto.
opera scrìtta dal proprio Maestro. Perciò, la mia intenzione non è quella d'analizzare in quest'occasione II Mistero delle Cattedrali, né di
sottolineare il bello stile ed il profondo insegnamento. Confesso umilmente la mia incapacità e preferisco lasciare ai lettori il compito d'apprezzare il libro, ed ai Fratelli di Heliopolis la gioia di raccogliere
questa sintesi, esposta così magistralmente da uno di loro. Il tempo
e la verità faranno il resto.
Già da molto tempo, ormai,
l'Autore di questo libro non è più
tra noi. L'uomo si è eclissato. Riemerge soltanto il suo ricordo. Provo
una certa pena nell'evocare l'immagine di questo Maestro laborioso
e sapiente, al quale devo tutto, deplorando; ahimè! la sua precoce
dipartita. I suoi molti amici, fratelli sconosciuti che attendevano da lui
la soluzione del misterioso Verbum dimissum, lo rimpiangeranno in-
sieme a me.
tra noi. L'uomo si è eclissato. Riemerge soltanto il suo ricordo. Provo
una certa pena nell'evocare l'immagine di questo Maestro laborioso
e sapiente, al quale devo tutto, deplorando; ahimè! la sua precoce
dipartita. I suoi molti amici, fratelli sconosciuti che attendevano da lui
la soluzione del misterioso Verbum dimissum, lo rimpiangeranno in-
sieme a me.
Ma poteva egli, giunto al
culmine della Conoscenza, rifiutare di obbedire agli ordini del Destino? —
Nessuno è profeta in patria —
Questo vecchio proverbio spiega, forse, la ragione occulta dello sconvolgimento provocato, nella vita solitaria e studiosa del filosofo, dalla
scintilla della Rivelazione. Per effetto di questa fiamma divina, il vecchio uomo si è completamente consunto. Il nome, la famiglia, la patria, tutte le illusioni e tutti gli errori, tutte le vanità sono ridotte in
polvere. Ma da questa cenere, come la fenice dei poeti, nasce una
nuova personalità. Così almeno pretende la Tradizione filosofale.
Questo vecchio proverbio spiega, forse, la ragione occulta dello sconvolgimento provocato, nella vita solitaria e studiosa del filosofo, dalla
scintilla della Rivelazione. Per effetto di questa fiamma divina, il vecchio uomo si è completamente consunto. Il nome, la famiglia, la patria, tutte le illusioni e tutti gli errori, tutte le vanità sono ridotte in
polvere. Ma da questa cenere, come la fenice dei poeti, nasce una
nuova personalità. Così almeno pretende la Tradizione filosofale.
Il Mio Maestro lo sapeva. E sparì quando giunse l'ora fatidica,
quando il Segno fu compiuto. Chi oserebbe sottrarsi alla Legge? —
Anch'io, nonostante lo struggimento provocato da una separazione
dolorosa, ma inevitabile, se mi capitasse il fortunato avvenimento che
obbligò l'Adepto ad allontanarsi dagli orrori di questo mondo, non
mi comporterei in maniera diversa.
quando il Segno fu compiuto. Chi oserebbe sottrarsi alla Legge? —
Anch'io, nonostante lo struggimento provocato da una separazione
dolorosa, ma inevitabile, se mi capitasse il fortunato avvenimento che
obbligò l'Adepto ad allontanarsi dagli orrori di questo mondo, non
mi comporterei in maniera diversa.
Fulcanelli non è più. Eppure il suo pensiero è rimasto, ardente
e vivo, chiuso per sempre in queste pagine come in un santuario, e
questa è la nostra unica consolazione.
e vivo, chiuso per sempre in queste pagine come in un santuario, e
questa è la nostra unica consolazione.
Grazie a lui, la Cattedrale gotica ci confida il suo segreto. E
non
senza sorpresa né emozione apprendiamo in che modo fu tagliata, dai
nostri antenati, la prima pietra delle fondazioni, gemma abbagliante,
più preziosa dello stesso oro, e sulla quale Gesù fondò la sua Chiesa.
Tutta la Verità, tutta la Filosofia, tutta la Religione si basano su
quest'unica Pietra sacra. Molti uomini, pieni di presunzione, si credono
capaci di fabbricarla; eppure, quanto sono rari gli eletti abbastanza
semplici, abbastanza sapienti, abbastanza abili da riuscirvi!
senza sorpresa né emozione apprendiamo in che modo fu tagliata, dai
nostri antenati, la prima pietra delle fondazioni, gemma abbagliante,
più preziosa dello stesso oro, e sulla quale Gesù fondò la sua Chiesa.
Tutta la Verità, tutta la Filosofia, tutta la Religione si basano su
quest'unica Pietra sacra. Molti uomini, pieni di presunzione, si credono
capaci di fabbricarla; eppure, quanto sono rari gli eletti abbastanza
semplici, abbastanza sapienti, abbastanza abili da riuscirvi!
Ma ciò non ha molta importanza. Ci basti sapere che le meraviglie
del nostro medioevo contengono la stessa verità positiva, gli stessi
fondamenti scientifici delle piramidi d'Egitto, dei templi greci, delle
Catacombe romane e delle basiliche bizantine.
fondamenti scientifici delle piramidi d'Egitto, dei templi greci, delle
Catacombe romane e delle basiliche bizantine.
Tale è, grosso modo, la portata del libro di Fulcanelli.
Gli ermetisti, — o almeno quelli che sono degni di questo nome,
— scopriranno anche dell'altro. Si dice che la luce nasce dallo scontro
di idee differenti: essi potranno riconoscere che qui, nel confronto tra
il Libro e l'Edificio, si libera lo Spirito e la Lettera muore. Fulcanelli
ha fatto per loro il primo sforzo; tocca ora agli ermetisti fare l'ultimo.
La strada che resta da percorrere è breve. C'è ancora bisogno di individuarla con, esattezza e di non muoversi senza sapere dove si va.
— scopriranno anche dell'altro. Si dice che la luce nasce dallo scontro
di idee differenti: essi potranno riconoscere che qui, nel confronto tra
il Libro e l'Edificio, si libera lo Spirito e la Lettera muore. Fulcanelli
ha fatto per loro il primo sforzo; tocca ora agli ermetisti fare l'ultimo.
La strada che resta da percorrere è breve. C'è ancora bisogno di individuarla con, esattezza e di non muoversi senza sapere dove si va.
Cosa si vuole di più?
Io so, non per averlo scoperto da solo, ma perché l'Autore stesso me
ne diede la certezza più di dieci anni ja, che la chiave dell'arcano
più grande è data, senza alcuna finzione, da una delle figure che illustrano quest'opera. E questa chiave consiste unicamente in un colore,
manifesto all'artista già dall'inizio del lavoro. Nessun Filosofo, a
quanto mi è dato sapere, ha colto l'importanza di questo punto essenziale. Rendendolo noto, obbedisco alle ultime volontà di Fulcanelli e
sono in regola con la mia coscienza.
più grande è data, senza alcuna finzione, da una delle figure che illustrano quest'opera. E questa chiave consiste unicamente in un colore,
manifesto all'artista già dall'inizio del lavoro. Nessun Filosofo, a
quanto mi è dato sapere, ha colto l'importanza di questo punto essenziale. Rendendolo noto, obbedisco alle ultime volontà di Fulcanelli e
sono in regola con la mia coscienza.
Ed ora, mi sia permesso, in nome dei Fratelli di Heliopolis e mio,
di ringraziare caldamente l'artista al quale il mio maestro affidò l'illustrazione del proprio lavoro. Infatti, grazie al talento sincero e minuzioso del pittore Julien Champagne, Il Mistero delle Cattedrali riveste
il proprio austero esoterismo d'un superbo mantello di disegni originali.
di ringraziare caldamente l'artista al quale il mio maestro affidò l'illustrazione del proprio lavoro. Infatti, grazie al talento sincero e minuzioso del pittore Julien Champagne, Il Mistero delle Cattedrali riveste
il proprio austero esoterismo d'un superbo mantello di disegni originali.
E. canseliet
F.C.H
Ottobre 1925
Ottobre 1925
PREFAZIONE ALLA
SECONDA EDIZIONE
Quando Il
Mistero delle Cattedrali fu scritto, nel
1922, Fulcanelli non aveva ricevuto ancora Il Dono di Dio, ma era così vicino all'Illuminazione
suprema che ritenne necessario aspettare e mantenere l'incognito, del resto
sempre conservato più ancora per inclinazione personale che per scrupolo d'una
rigorosa obbedienza alla regola del segreto. In verità, dobbiamo ammettere che
quest'uomo d'un'altra età, per il suo strano portamento, i suoi modi antiquati e
le sue insolite occupazioni, attirava, senza volerlo, l'attenzione degli
oziosi, dei curiosi e degli sciocchi; molto meno rumore, tuttavia, suscitò, un
po' più tardi, la scomparsa totale della sua presenza fisica.
Così, non appena fu in ordine la prima
parte dei suoi scritti, il Maestro manifestò il suo desiderio, - assoluto e
senza appello, cioè che la sua vera entità restasse nell'ombra, e che sparisse
la sua etichetta sociale, ormai definitivamente cambiata con lo pseudonimo voluto
dalla Tradizione e da molto tempo familiare. Questo nome celebre è così
solidamente fissato nella memoria fino alle future generazioni, che non è
assolutamente possibile sostituirlo con un qualsiasi altro patronimico per
quanto quest'ultimo possa sembrare ben fondato, o brillantissimo o il più
auspicato.
Ci si deve, come minimo, persuadere
che il padre d'un'opera di così eccelsa qualità, non lo abbandonò certo, una
volta compiuto il suo lavoro, se non per delle ragioni strettamente pertinenti,
se non imperiose, e maturate profondamente. Su di un piano diverso, tali ragioni
diedero luogo alla rinuncia, che non ci si stanca d'ammirare, perché anche gli
autori più distaccati dal mondo, scelti tra i migliori, si mostrano sempre
sensibili alla gloriuzza che deriva dalla propria opera stampata. Si deve
aggiungere però, che il caso di Fulcanelli non assomiglia a nessun altro,
nell'ambito delle Lettere del nostro tempo, perché proviene da una disciplina
etica infinitamente superiore, secondo la quale il nuovo Adepto armonizza il
suo destino con quello dei suoi rari predecessori, come lui apparsi alla loro
epoca determinata, scaglionati su una strada immensa, simili a dei fari di
salvezza e di misericordia. Filiazione senza macchia, che si mantiene
prodigiosamente, perché senza sosta venga confermata, nella
sua duplice manifestazione spirituale e scientifica, la Verità eterna,
universale ed indivisibile. E come la maggioranza degli antichi Adepti,
Fulcanelli, gettando alle ortiche del fosso la consunta spoglia del vecchio
uomo, lasciò soltanto sul sentiero la
traccia onomastica del proprio fantasma di cui l'altero biglietto da visita
proclama la suprema aristocrazia.
* * *
Per coloro che posseggono qualche
conoscenza dei libri alchimistici del passato è necessario basarsi su questo
aforisma: l'insegnamento orale da maestro a discepolo è superiore a qualsiasi
altro. È in questo modo che Fulcanelli ricevette l'iniziazione, così come noi
l'abbiamo ricevuta da lui; dobbiamo però aggiungere, da parte nostra, che
Ciliani ci aveva già spalancato la porta del labirinto, nella settimana incui
apparve, nel 1915, la riedizione del suo opuscolo.
Nella nostra Introduzione alle Dodici Chiavi della Filosofia noi abbiamo ripetuto di proposito che
Basilio Valentino fu l'iniziatore del
nostro Maestro, e ciò perché ci fu data l'occasione di cambiare l'epiteto del
vocabolo, cioè di sostituire - per amore di esattezza - l'aggettivo numerale
primo al qualificativo vero che avevamo utilizzato prima, nella nostra
Prefazione delle Dimore filosofali. A
quell'epoca, noi ignoravamo la lettera così commovente che riportiamo qui sotto
e che trae tutta la sua cattivante bellezza dallo slancio dell'entusiasmo, dal
l'accento del fervore che infiamma improvvisamente lo scrittore, diventato
anonimo a causa della raschiatura della firma, come lo è il destinatario per la
mancanza d'indirizzo. Indubbiamente costui fu il maestro di Fulcanelli, il
quale lasciò, tra le sue carte, la lettera rivelatrice, segnata in croce da due
righe sporche di carbone, lungo la traccia della piegatura, per essere stata
poi tanto tempo chiusa in un portafoglio, dove è stata lo stesso raggiunta
dalla polvere impalpabile e grassa dell'enorme forno sempre in attività. Così
l'autore del Mistero delle Cattedrali
conservò per molti anni, come un talismano, la prova scritta del trionfo del
suo vero iniziatore, prova che nulla più vieta di pubblicare oggi, soprattutto
perché essa fornisce una idea potente e giusta del sublime ambito nel quale si
situa la Grande Opera. Pensiamo che non ci sarà rimproverata la lunghezza della
strana lettera da cui sarebbe certo un peccato eliminare anche una sola parola,
Mio caro amico,
Questa volta
avete veramente ricevuto il Dono di Dio;
è una grande Grazia, e per la prima volta, mi rendo conto di quanto sia raro
questo favore. Infatti io credo che l'arcano, nel suo abisso insondabile di
semplicità, è introvabile con l'aiuto del solo raziocino per quanto esso possa
essere sottile ed esercitato. Finalmente siete in possesso del Tesoro dei Tesori, rendiamo grazie alla
Luce Divina che ve ne ha reso partecipe. Del resto, l'avete meritato
giustamente con la vostra incrollabile fede nella Verità, la costanza degli
sforzi, la perseveranza nel sacrifìcio, ed anche, non dimentichiamolo,... con le vostre opere buone.
Quando mia
moglie m'ha annunciato la bella notizia, sono stato sbalordito dalla gioiosa
sorpresa e non stavo più in me dalla felicità. A tal punto che mi son detto:
purché non paghiamo quest'ora di euforia con qualche cosa di terribile domani.
Ma, sebbene informato sommariamente della cosa, ho creduto di capire, e ciò
conferma la mia certezza, che il fuoco
viene spento soltanto quando l'Opera è compiuta e tutta la massa tintoria
impregna il vetro che, di decantazione in decantazione, resta alla fine
completamente saturo e diventa luminoso come il sole.
Avete spinto
la vostra generosità fino ad associarci a questa alta ed occulta conoscenza che
vi appartiene di diritto e che è totalmente personale. Meglio di ogni altro ne
avvertiamo tutto il peso e meglio di ogni altro siamo capaci di rimanervi
eternamente riconoscenti. Sapete bene che le più belle frasi, le più eloquenti
proteste non valgono quanto la commovente semplicità di queste parole: voi siete buono, ed è proprio per questa
grande virtù che Dio ha posto sulla vostra fronte il diadema della vera
regalità. Egli sa che farete un nobile uso dello scettro e dell'inestimabile
appannaggio che comporta. Da molto tempo ormai Vi conosciamo come il mantello
blu dei vostri amici nel bisogno; il mantello caritatevole si è improvvisamente
allargato perché, ora, tutto l'azzurro del cielo, ed il suo grande sole coprono
le vostre nobili spalle. Possiate gioire a lungo di questa grande e rara
felicità per la gioia e la consolazione dei vostri amici, ed anche dei vostri nemici,
perché la disgrazia cancella tutto ed ormai disponete della bacchetta magica
che compie tutti i miracoli.
Mia moglie,
con quell'inesplicabile intuizione delle persone sensibili, aveva fatto un
sogno molto strano. Aveva visto un uomo avvolto in tutti i colori dell'iride ed
innalzato fino al sole. La spiegazione non si è fatta attendere. Quale
Meraviglia! Che bella e vittoriosa risposta alla mia lettera piena di
dialettica e - teoricamente - esatta, ma quanto lontana, ancora, dal Vero, dal Reale! Ah! si potrebbe quasi affermare
che chi ha salutato la stella del mattino
ha perso per sempre l'uso della vista e della ragione, perché è affascinato da
questa falsa luce e precipitato nelle tenebre... A meno che, come è stato per
voi, un gran colpo di fortuna non lo allontani bruscamente dall'orlo del precipizio.
Non vedo
l'ora di rivedervi, caro amico mio, di riascoltare il racconto delle ultime ore
d'angoscia e di trionfo. Ma state pur certo, tanta è la gioia che stiamo
provando e tale è la gratitudine che è nel nostro cuore, che non riuscirei mai
ad esprimermi a parole. Alleluia!
Vi abbraccio
e mi felicito con voi
Il
vostro vecchio amico...
Chi sa
compiere l'Opera con il solo mercurio
ha trovato la perfezione, - cioè è stato illuminato ed ha compiuto il
Magistero.
Forse, un passaggio avrà colpito,
sorpreso o sconcertato il lettore attento e già in dimestichezza con i dati
principali del problema ermetico. Si tratta di quel passaggio in cui l'intimo e
saggio autore della missiva esclama:
"Ah! si potrebbe quasi affermare
che chi ha salutato la stella del
mattino ha perso per sempre l'uso della
vista e della ragione, perché è affascinato da questa falsa luce ed è
precipitato nelle tenebre".
Questa frase sembra in contraddizione
con quello che abbiamo affermato, più di vent'anni fa, in uno studio sulla Toison d'Or1 (1
Vedi Alchimie. J.J. Pauvert editore,
p. 137), e cioè che la stella è il grande
segno dell'Opera; ch'essa suggella la materia filosofale; che essa fa sapere
all'alchimista d'aver trovato non la luce dei pazzi ma quella dei saggi; che
essa consacra la saggezza; e che è chiamata stella del mattino.
Il lettore avrà notato che precisavamo
brevemente che l'astro ermetico è da principio ammirato nello specchio dell'arte o mercurio prima di
mostrarsi sotto il cielo chimico, ch'esso
rischiara in modo assai modesto?
Egualmente ligio ai doveri di carità e
d'osservanza del segreto, anche se questo poteva farci passare per dei ferventi
amanti del paradosso, avremmo potuto insistere già allora sul meraviglioso
segreto e, a questo scopo, avremmo potuto ricopiare alcuni appunti scritti in
un vecchio quaderno, dopo una delle dotte discussioni con Fulcanelli; queste
discussioni, accompagnate da caffè freddo e zuccherato, erano la nostra
maggiore delizia al tempo della nostra adolescenza, quand'eravamo assidui e
studiosi, avidi di questo incomparabile sapere.
La nostra
stella è unica, eppure è doppia. Sappiate distinguere la sua impronta reale
dalla sua immagine, e noterete ch'essa brilla con più intensità alla luce del
giorno che nelle tenebre della notte.
Dichiarazione, questa, che convalida e
completa quella di Basilio Valentino (Douze
Clefs) non meno categorica e solenne:
"Gli Dei hanno accordato agli
uomini due stelle per condurli verso la grande Sapienza; osservale, o uomo! e
segui con costanza il loro chiarore, perché è in esso che si trova la
Saggezza".
E si tratta certo delle due stelle
rappresentate in una delle piccole illustrazioni alchemiche del convento
francescano di Cimiez, accompagnata da una leggenda in latino che riguarda la
virtù salvatrice inerente l'irraggiamento notturno delle stelle.
"Cum luce salutem; con la luce, la
salvezza".
In ogni caso, anche se si possiede
solo in minima parte il significato filosofico e se si prende la briga di
meditare sulle già citate parole di Adepti incontestabili, si avrà la chiave
con cui Ciliani apre la porta del tempio. Ma se ancora non si comprende, allora
si rileggano le opere di Fulcanelli e non si vada a cercare altrove un
insegnamento che nessun altro libro potrebbe fornire con altrettanta
precisione.
Esistono, dunque, due stelle, che,
nonostante la poca verosimiglianza, formano in realtà un'unica stella. Quella
che brilla sulla Vergine mistica, - che è contemporaneamente nostra madre ed il mare ermetico1 (1 In francese mère
(madre) e mer (mare) si pronunciano allo stesso modo e sono dello stesso
genere. Quindi notre mère (nostra madre), secondo la cabala fonetica, ha il
significato di "nostro mare" (N.d.T)) - annuncia il concepimento e non è altro che il riflesso dell'altra che
precede il miracoloso avvento del Figlio. Perché se la Vergine celeste è
chiamata anche "stella matutina", stella del mattino; se si può
contemplare su di lei lo splendore d'un segno divino; se la riconoscenza per
questa sorgente di grazie procura gioia al cuore dell'artista; non si tratta,
però, che d'una semplice immagine riflessa dallo specchio della Saggezza.
Questa stella visibile ma inafferrabile, malgrado la sua importanza ed il posto
che occupa nelle opere di vari autori, attesta la realtà dell'altra, di quella
che incorona alla nascita il Bimbo divino. San Crisostomo ci fa sapere che il
segno che condusse i Magi alla grotta di Betlemme, prima di sparire, si posò
sul capo del Salvatore e lo circondò d'un'apoteosi di luce.
* * *
Insistiamo, e siamo certi che alcuni
ce ne saranno riconoscenti: si tratta veramente d'un astro notturno la cui luce
s'irraggia senza molto splendore al polo del cielo ermetico. E
quindi ha poca importanza, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze, che ci si
informi sul cielo terrestre, di cui
parla Venceslao Lavinius di Moravia e su cui insiste tanto Jacobus Tollius:
"Tu avrai compreso che cos'è il
Cielo, di cui si parla nel mio piccolo libro, e per mezzo del quale sarà svelato il Cielo chimico. Perché
Questo cielo
è immenso e riveste le campagne di una luce color di porpora.
In esso sono
stati individuati i suoi astri ed il suo sole".
È indispensabile meditare a fondo che
il cielo e la terra, sebbene nel caos cosmico originale siano stati mescolati,
non sono differenti ne in sostanza ne in essenza, ma lo diventano in qualità,
in quantità ed in virtù. La terra alchemica, caotica, inerte e sterile, non
contiene forse, nonostante ciò, il cielo filosofico? Sarebbe dunque impossibile
per l'artista, imitatore della Natura e della Grande Opera divina, separare nel
suo piccolo mondo, con l'aiuto del fuoco segreto e dello
spirito universale, le parti cristalline, velenose e pure, dalle parti dense,
oscure e grossolane? Ma questa separazione deve essere compiuta, essa consiste
nell'estrarre la luce dalle tenebre e nel realizzare il lavoro del primo dei Grandi
Giorni di Salomone. Mediante questa
separazione, possiamo sapere che cos'è la terra filosofale e che cosa gli Adepti hanno chiamato cielo
dei Saggi.
Filalete che, nel suo libro Entrée ouverte au Palais ferme du Roi, si è soffermato più degli altri sulla
pratica dell'Opera, fa cenno della stella ermetica, e conclude con la magia
cosmica della sua apparizione:
"È il miracolo del mondo,
l'unione delle virtù superiori con quelle inferiori; per questa ragione
l'Onnipotente l'ha indicata con un segno straordinario. I Saggi l'hanno visto
in Oriente, ne sono rimasti sbalorditi e subito dopo hanno saputo che un Re
purissimo era venuto al mondo.
Quando tu avrai visto la sua stella,
seguila fino alla Culla; là vedrai il Bel Bambino".
In seguito l'Adepto rivela come si
deve procedere:
"Si prendano quattro parti del
nostro drago igneo, che nasconde nel suo ventre il nostro Acciaio magico, e
nove parti della nostra Calamita; mescolale insieme per mezzo di un ardente
Vulcano, fino a ridurle sotto forma d'acqua minerale, su cui galleggerà una
schiuma che deve essere eliminata. Getta la crosta esterna, prendi il nocciolo,
purgalo tre volte con il fuoco e con il sale, cosa che si farà facilmente se
Saturno ha visto la propria immagine nello specchio di Marte".
Infine Filatele aggiunge:
"E l'Onnipotente imprime il suo
regale sigillo a quest'Opera e, così facendo, l'adorna in modo del tutto
particolare”.
***
In verità, la stella non è un segno
speciale del travaglio della Grande Opera. La si può incontrare in numerosi
composti archimici, in procedimenti particolari ed in
operazioni spagiriche di minore importanza. E non di meno essa ha sempre lo
stesso valore indicativo di trasformazione, parziale o totale, dei corpi sui
quali si è formata. Un esempio tipico ci è fornito da Jean-Frédéric Helvetius,
in questo passaggio del suo Veau d'Or
(Vitulus Aureus), che traduciamo:
"Un orefice di La Haye (cui nomen
est Grillus), discepolo assai esperto in alchimia, ma uomo assai povero secondo
il carattere proprio di questa scienza, qualche anno fa1 (1 Verso il 1664, anno
dell'edizione principe e introvabile del Vilulus
Aurvus.), chiese al mio carissimo
amico Jean-Gaspard Knôttner, tintore di stoffe, un po' di spirito di sale preparato
in modo non volgare. A Knôttner che gli chiedeva se questo spirito di sale
speciale sarebbe stato utilizzato o meno per i metalli, Gril rispose che era per i metalli; in seguito, egli versò questo spirito
di sale su del piombo che aveva posto in un recipiente di vetro, normalmente
utilizzato per le marmellate o altri alimenti. Dopo circa due settimane,
apparve in superficie una stranissima e brillante Stella argentea, che sembrava
eseguita col compasso da un abile artista. Per cui Gril, pieno d'una immensa
gioia, ci annunciò d'aver visto la stella visibile dei Filosofi; su di essa probabilmente
aveva letto qualcosa in Basilio (Valentino). Io e molti altri uomini onorati,
guardavamo con estrema ammirazione questa stella affiorante sullo spirito di
sale, mentre sul fondo, il piombo restava color cenere e gonfio come una
spugna. Poi, dopo sette o nove giorni, la parte umida dello spirito di sale
evaporò a causa dei grandi calori di quel mese di luglio, e la stella toccò il
fondo posandosi sul piombo spugnoso e terroso. Infine, Gril coppellò su di un
coccio la parte di piombo cinereo che portava aderente su di sé la stella, e
ottenne da una libbra di questo piombo, dodici ance d'argento di coppello e da
queste dodici once ricavò ancora due once d'oro eccellente".
Questa è
la relazione di Helvetius. Noi la riferiamo soltanto per esemplificare la
presenza del segno della stella in tutte le modificazioni interne dei corpi
trattati filosoficamente. Però non vorremmo essere la causa di lavori
infruttuosi e deludenti, intrapresi senza dubbio da qualche lettore entusiasta,
basatosi sulla reputazione di Helvetius, sulla probità di testimoni oculari e,
forse, anche sulla nostra costante cura di sincerità. Per questa ragione
facciamo notare a coloro che vorrebbero rilevare il procedimento che in questo
racconto mancano due dati fondamentali: la composizione chimica esatta
dell'acido idrocloridrico e le operazioni preliminari effettuate sul metallo.
Nessun chimico ci contraddirà se affermiamo che il piombo ordinario, qualunque
esso sia, non assumerà mai l'aspetto di pietra pomice sottomettendolo a freddo
all'azione dell'acido muriatico. Quindi per provocare la dilatazione del
metallo sono necessarie parecchie operazioni preliminari: eliminare le scorie
più grossolane e gli elementi perituri, per giungere poi, mediante la dovuta
fermentazione, al rigonfiamento che procurerà quell'aspetto spugnoso, molle,
che già manifesta una tendenza molto marcata per un profondo cambiamento delle
proprietà specifiche.
Blaise de Vigenère e Nassagora, per
esempio, sono d'accordo sull'opportunità d'una lunga cottura preliminare.
Perché, se è vero che il piombo comune è morto, - perché ha patito la riduzione
e perché, come dice Basilio Valentino, una grande fiamma divora un piccolo fuoco,
- non è men vero che lo stesso metallo, nutrito con pazienza di sostanza ignea,
si rianimerà, riprenderà poco per volta la sua attività spenta e da materia
chimica inerte diventerà corpo filosofico
vivente.
***
Ci si potrà stupire che abbiamo trattato con
approfondimento un solo punto della Dottrina, tanto da dedicargli la maggior
parte di questa prefazione, e proprio per questa ragione, temiamo d'aver oltrepassato
i limiti entro i quali, in genere, si tengono le prefazioni. Si può facilmente
notare, però, quant'era logico che trattassimo quest'argomento che introduce
direttamente al testo di Fulcanelli. Già dall'inizio del suo libro, infatti, il
nostro Maestro s'è lungamente soffermato sul ruolo capitale della Stella, sulla Teofania minerale che
annuncia, con certezza, la tangibile spiegazione del gran segreto sepolto negli
edifici religiosi. Ecco appunto qual è Il Mistero delle Cattedrali, titolo dell'opera di cui curiamo, - dopo
l'edizione del 1926, di soli 300 esemplari, - una seconda edizione arricchita
da tre disegni di Julien Champagne e da alcune note originali di Fulcanelli, raccolte
e pubblicate tali e quali, senza nessuna aggiunta né il più piccolo
cambiamento. Esse sono dedicate ad un angoscioso dilemma, che trattenne
lungamente il Maestro alla sua scrivania, e sul quale diremo qualcosa a proposito
delle Dimore Filosofali.
Insomma, se si dovesse giustificare il
merito del Mistero
delle Cattedrali, basterebbe segnalare
che questo libro ha posto nuovamente in luce la cabala fonetica i cui principii
e la cui applicazione erano caduti nel più totale oblio. Dopo questo
insegnamento dettagliato e preciso, dopo le brevi considerazioni che abbiamo
fatto a proposito del centauro, dell’uomo-cavallo di Plessis-Bourré, nel libro Due Dimore di alchimisti (Deux Logis
alchimiques), non si dovrebbe più
confondere la lingua matrice, l'energico
idioma facilmente capito anche se mai
parlato e, sempre secondo Cyrano Bergerac, l'istinto o la voce della natura con le trasposizioni, le inversioni, le
sostituzioni e i calcoli astrusi quanto arbitrari della Kabbala ebrea. Ecco perché è necessario distinguere
tra i due vocaboli cabala e Kabbala, per poterli usare a ragion veduta: il
primo deriva da (parola greca) o dal latino caballus, cavallo; il secondo dall'ebreo kabbalah che
significa tradizione. Inoltre non si
dovrà cercare il pretesto, nei sensi figurati che vengono ampliati per
analogia, per parlare di imbroglio, maneggio o intrigo, rifiutando così, alla
parola cabala, l'uso che essa soltanto può giustificare e che Fulcanelli ha
magistralmente confermato, ritrovando la chiave perduta della Gaia Scienza, della Lingua degli Dei o degli Uccelli. Gli stessi idiomi che Jonathan Swift, il singolare Decano di San
Patrizio, conosceva a fondo e usava a suo piacimento, con profonda scienza e
virtuosismo.
SAVIGNIES. agosto 1957
PREFAZIONE ALLA
TERZA EDIZIONE
“Mieux vault vivre gros bureaux
Povre, qu’avoir est seigneur
Et
pourrir soubz riches tombeaux!
Qu'avoir esté seigneur! Que dys?
Seigneur, las! et ne l'est il mais?
Selon les davitiques dit,
Son
lieu ne congnoistras jamais”.
Francois Villon
Le Testament
XXXVI e XXXVII
Era necessario, e soprattutto era
un'elementare cura per Ìa salvezza della filosofia ermetica, che Il Mistero delle Cattedrali comparisse nuovamente. Tramite l'editore
Jean-Jacques Pauvert, ecco pronta una nuova edizione, preparata con lo stile e
l'accuratezza che già gli conosciamo e che, per il bene degli studiosi,
soddisfa sempre la duplice preoccupazione di contenere, nel senso migliore di
questo vocabolo, la perfezione dell'esecuzione ed il prezzo di vendita al
lettore. Due condizioni, queste, intrinseche e fondamentali, ed assai
apprezzate dall'esigente Verità che Jean-Jacques Pauvert ha voluto avvicinare
maggiormente, illustrando la prima opera del Maestro con la fotografia perfetta
di quelle sculture che prima erano presentate con i disegni di Julien
Champagne. E così la precisione dell'emulsione fotografica, permettendo di
confrontare le opere originali, proclama la coscienza e l'abilità di quell'eccellente
artista che conobbe Fulcanelli nel 1905, cioè dieci anni prima che noi
ricevessimo lo stesso inestimabile privilegio, tanto oneroso e troppo spesso
invidiato.
***
L'alchimia per l'uomo molto
probabilmente non è altro che la ricerca ed il risveglio della
Vita segretamente assopitasi sotto il pesante involucro dell'essere e la grezza
scorza delle cose, ricerca e risveglio derivanti da un certo stato d'animo
molto prossimo alla grazia reale ed efficace. Sui due piani universali, dove
siedono insieme la materia e lo spirito, il processo è assoluto e consiste in
una permanente purificazione fino alla purificazione più completa.
A questo scopo niente è più utile, per
quel che riguarda il modo d'operare, dell'apoftegma antico e così preciso nella
sua imperativa concisione: Salve et coagula; dissolvi e coagula.
La tecnica semplice e lineare, esige sincerità, decisione e pazienza, ed ha
bisogno d'immaginazione, ahimè! ormai quasi totalmente scomparsa in un gran
numero di persone, in questa nostra epoca dominata da una saturazione sterilizzante
ed aggressiva. Sono pochi quelli che si dedicano all'idea vivente, all'immagine
fruttuosa, al simbolo inseparabile da qualsiasi elaborazione filosofale o
avventura poetica, aprendosi a poco a poco, in lento progresso, ad una luce più
grande ed alla conoscenza.
Molti alchimisti hanno detto, in particolare
la Turba attraverso le parole di Baleus, che
"la madre ha pietà del proprio figlio, ma egli è molto duro nei suoi
riguardi”. Il dramma familiare si svolge m modo positivo in seno al microcosmo
alchimico-fisico, di modo che si può sperare, per il mondo terrestre e la sua
umanità, che la Natura finalmente perdoni gli uomini e si adatti, nel miglior
modo possibile, alle torture ch'essi le fanno continuamente subire.
***
Ma c'è dell'altro ben più grave:
Mentre la Franc-Macomerie cerca sempre la parola perduta (verbum dimissum), la
Chiesa universale (parola greca katholiké), che posside questo Verbo, lo sta
abbandonando per abbracciare l'ecumenismo del diavolo. E niente favorisce di
più quest'errore inespiabile di un clero, troppo spesso ignorante, che
obbedisce tremando all'impulso errato, ma cosìddetto progressista suggerito
dalle forze occulte che mirano soltanto a distruggere l'opera di Pietro. Il rituale magico della messa latina, profondamente sconvolto, ha
perso ogni valore, ed ora è perfettamente intonato con il cappello floscio ed
il completo scuro adottato da alcuni preti, felicissimi di questo travestimento
che sembra una promettente tappa verso l'abro gazione del celibato
filosofico...
In seguito a questa politica
d'incessante abbandono, s'installa la funesta eresia accompagnata dalla
raziocinante vanità ed il profondo disprezzo delle leggi più misteriose. Tra
quest'ultime, l'ineluttabile necessità della putrefazione feconda, per
qualsiasi materia, affinché la vita possa continuare sotto la fallace apparenza
del nulla e della morte. Conoscendo la fase transitoria, tenebrosa e segreta,
che spalanca delle straordinarie possibilità all'alchimia operativa, non è
forse terribile che la Chiesa acconsenta, ormai, a quest'atroce cremazione che
una volta era senz'altro respinta?
Eppure quale immenso orizzonte
spalanca la parabola del grano affidato alla terra, riportata da San Giovanni:
"In verità, in verità vi dico, se
il granello di frumento, cadendo a terra, non muore, rimane solo; ma se muore,
porta molti frutti"
(XII, 24).
E similmente, dello stesso discepolo
prediletto, quest'altra preziosa indicazione del Maestro, a proposito di
Lazzaro, sul fatto che la putrefazione del corpo non sta a significare la
totale abolizione della vita:
“Gesù dice: Levate la pietra. Marta, sorella
del morto, gli dice: Signore, ormai manda cattivo odore; perché è là sotto da
quattro giorni. Gesù gli dice: Non ti ho forse detto che, se credi, vedrai la gloria
di Dio?" (XI,
39, 40).
Dimenticando la Verità ermetica che
assicurò la sua fondazione, la Chiesa, essendole stato chiesto il suo parere
circa l'incinerazione dei cadaveri, prende in prestito, senza alcuno sforzo, la
sua pessima giustificazione alla scienza del bene e del male, secondo la quale
la decomposizione dei corpi, nei cimiteri sempre più numerosi, sarebbe una
minaccia d'infezione e d'epidemia per gli abitanti che respirano l'aria dei
dintorni. Argomento assai specioso, che fa per lo meno sorridere, soprattutto
quando si sa che fu proposto, molto seriamente, più d'un secolo fa, mentre era
fiorente il gretto positivismo dei Comte e dei Littré! Ed anche commovente
sollecitudine che, in questa nostra epoca benedetta, non fu usata al tempo di
due ecatombi, grandiose per il numero dei morti e per la durata, ed avvenute su
un territorio assai ristretto, nel quale l'inumazione era sempre in ritardo e,
spesso, molto dopo il tempo stabilito e quasi mai alla profondità
regolamentare.
In contrasto a ciò, è il momento di
ricordare l'osservazione, macabra e singolare, quale si dedicarono, all'inizio
del Secondo Impero, e con uno spirito assai differente, con la pazienza e la
costanza d'un'altra epoca, i due celebri medici e tossicologi Mathieu-Joseph Orfila
e Marie-Guillaume Devergie. Osservazione sulla lenta e progressiva
decomposizione del corpo umano; ecco la fine dell'esperienza condotta, fino ad
allora, nel fetore e nell'intensa proliferazione dei vibrioni:
"L'odore diminuisce gradualmente; alla
fine si arriva ad uno stadio nel quale tutte le parti molli sono sparse sul
suolo formando un ammasso fangoso, nerastro e con un odore che ha qualcosa di aromatico".
Per quel
che riguarda la trasformazione del fetore in profumo, si deve notare la sorprendente
somiglianza con quello che dichiararono gli antichi Maestri, a riguardo della
Grande Opera fisica. In particolare due di essi, Morien e Raimondo Lullo
precisano che dopo l'odore fetido
(odor teter) della dissoluzione oscura, viene il profumo più soave, perché
è il profumo delle proprietà di vita e calore (quia et vitae proprius est et caloris).
***
Dopo ciò
che abbiamo abbozzato, non si deve forse essere timorosi, visto che già intorno
a noi, al livello in cui siamo, possono influire alcune testimonianze
contestabili od argomentazioni speciose? Propensioni deplorevoli che mostrano,
invariabilmente, l'invidia e la mediocrità e di cui ci sentiamo in dovere di
distruggere, oggi, gli effetti negativi e persistenti. Ci riferiamo con questo
ad una rettifica assai obbiettiva del nostro Maestro Fulcanelli che studiava,
al museo di Cluny, la statua di Marcello, vescovo di Parigi, statua che una volta
era posta a Notre-Dame, sul pilastro mediano del portale di sant'Anna, prima
che gli architetti Viollet-le-Duc e Lassus la sostituissero, verso il 1850, con
una copia soddisfacente. Quindi l'Adepto del Mistero delle Cattedrali fu
portato a correggere gli errori commessi da Louis-Francois Cambrici. Eppure
costui avrebbe potuto esaminare la scultura originale, sempre al suo posto
nella cattedrale, dall'inizio del XIV secolo, ed invece scrisse, sotto il re
Carlo X, una breve e fastidiosa descrizione:
«Questo vescovo porta un dito alla
bocca, per dire a coloro che lo vedono e che sono venuti a conoscenza di ciò
ch'egli rappresenta... Se riconoscete ed indovinate che cosa io voglio
significare con questo geroglifico, tacete!... Non dite niente!» (Cours de Philosophic
her-métique ou d'alchimie
en dix-neuf lecons. Parigi, Lacour e
Maistrasse 1843).
Nell'opera di Cambriel, queste righe
sono accompagnate dallo schizzo inesperto che le ispirò o che fu da esse
ispirato. Siamo del parere di Fulcanelli quando egli afferma di non riuscire
ad immaginare che due osservatori, cioè lo scrittore ed il disegnatore, siano
stati vittime, in due momenti diversi, dello stesso errore. Sul disegno stampato
nel libro, il santo vescovo è barbuto, con evidente metacronismo, ha il capo
coperto da una mitra decorata da quattro piccole croci e tiene, con la mano
sinistra, un corto pastorale appoggiato alla spalla. Ed infine, imperturbabile,
alza l'indice al livello del mento nell'espressivo gesto mimico del segreto e
della raccomandazione di silenzio.
Nella sua conclusione Fulcanelli
scrive: «Il controllo è facile perché possediamo l'opera originale e quindi
l'inganno salta subito agli occhi. Il nostro santo è, secondo l'usanza
medioevale, assolutamente glabro; la sua mitra, molto semplice, non ha nessun
ornamento, il pastorale, tenuto dalla sua mano sinistra, appoggia la sua
estremità inferiore sulla gola del drago. Per quel che riguarda il famoso gesto
dei personaggi del Mutus
Liber e di Arpocrate, esso esiste solo
nell'eccessiva fantasia di Cambriel. San Marcello è rappresentato benedicente,
in un atteggiamento pieno di nobiltà, con la fronte inclinata, l'avambraccio
piegato, la mano all'altezza della spalla, l'indice ed il medio alzati».
* * *
Come s'è appena visto, la questione,
che in quest'opera è l'oggetto di tutto il paragrafo VII del capitolo PARIGI, era quindi completamente risolta; ed il lettore, volendo, potrebbe
prenderne visione per intero già da ora. Era stato sventato ogni inganno e la
verità perfettamente chiarita, quando Emile-Jules Grillot de Givry, circa tre
anni dopo, scrisse, nel suo Museo degli Stregoni, queste righe a proposito del
pilastro di mezzo del portale sud di Notre-Dame:
Sfortunatamente, per quest'immagine,
il presunto San Marcello non ha ancora il bastone episcopale di cui parla
Grillot, decisamente fuori strada tanto da giungere fino ad un'impossibile
esagerazione. Al massimo si può distinguere nella mano sinistra del prelato,
beffardo e provvisto d'una fluentissima barba, una specie di grosso bastone,
sprovvisto all'estremità superiore della voluta ornata che avrebbe potuto farlo
diventare un pastorale ecclesiastico.
Evidentemente era importante che, dal
testo e dall'illustrazione, si deducesse che questa scultura del XVI secolo -
opportunamente inventata - fosse quella che Cambrici "passando un giorno
davanti alla chiesa di Notre-Dame de Paris, esaminò con molta attenzione",
dato che l'autore dichiara, proprio sulla copertina del suo Corso di Filosofia,
che il libro fu terminato nel gennaio 1929. Così la descrizione ed il disegno,
opera dell'alchimista di Saint-Paul-de-Fenouillet, trovano un credito e, nello stesso
tempo, si completano restando nell'errore; mentre quell'irritante Fulcanelli, troppo
scrupoloso, esatto ed onesto, era accusato d'ignoranza e di inconcepibile
disprezzo. Invece, non è così facile concludere in questo modo; infatti lo si
constata subito sull'illustrazione di François Cambrici, nella quale il vescovo
porta, sì, un bastone accorciato, ma completo dell'abaco e della voluta a
spirale.
***
Non ci fermiamo alla spiegazione di Grillot
de Givry, assai ingegnosa ma un po' elementare dell'accorciamento della verga pastorale (virgo pastoralis); ed invece, non ci stanchiamo di denunciare questa
stranezza, che egli. cioè, si voleva riferire evidentemente, ma senza nominarla
espressamente! - innocentemente
preciserà Jean Reyor, volendo significare che ciò era avvenuto in modo del
tutto fortuito - alla pertinente correzione che sta nel Mistero delle
Cattedrali; infatti è impossibile che una mente così sveglia e curiosa come la
sua non ne sia venuta a conoscenza. Questo primo libro di Fulcanelli era in
circolazione dal giugno 1926, mentre Il Museo degli Stregoni uscì nel febbraio 1929, con la data:
Parigi, 20 novembre 1928; l'autore poi morì improvvisamente una settimana dopo
la pubblicazione del libro.
A quell'epoca, questo fatto, che non
ci sembrò del tutto onesto, ci turbò e ci sorprese lasciandoci sconcertati. Sicuramente
non ne avremmo mai parlato se dopo Marcel Clavelle - alias Jean Reyor -
recentemente Bernard Husson non avesse provato il bisogno inspiegabile, dopo
trentadue anni, di rintuzzare il colpo e di venire alla riscossa. Riporteremo
qui solo la tracotante opinione del primo, - pubblicata nel Voile d'Isis del
novembre 1932, - perché il secondo se n'è appropriato interamente, senza
neanche riflettere, e senza il più piccolo scrupolo: in verità, noi avremmo
preferito che ne dimostrasse almeno un po' nei confronti dell'Adepto
ammirevole, nostro comune Maestro:
"Tutti
condividono la virtuosa indignazione di Fulcanelli! Ma ciò che è soprattutto
riprovevole è la leggerezza dimostrata da questo scrittore in tale circostanza.
Chiariamo adesso che non c'erano gli elementi per accusare Cambrici di
"trucco", di "truffa" e di "impudenza".
"Verifichiamo
punto per punto: il pilastro che attualmente si trova nel portale di Notre-Dame
è una riproduzione moderna che fa parte del restauro degli architetti Lassus e
Viollet-le-Duc, eseguito verso il 1860. Il pilastro originale è relegato nel
Museo di Cluny. Però dobbiamo dire che il pilastro attuale riproduce assai
fedelmente, nell'insieme, quello del XIV secolo, tranne qualche motivo
decorativo del basamento. In ogni caso né l'uno né l'altro corrispondono alla descrizione
e all'illustrazione pubblicate da Cambrici ed innocentemente riprodotte da un
noto occultista. Eppure Cambrici non ha affatto cercato d'ingannare i suoi
lettori. Egli ha descritto e fatto disegnare fedelmente il pilastro, quale lo
potevano vedere tutti i Parigini del 1843. Ciò vuol dire che esiste un terzo
pilastro di San Marcello, che è una riproduzione infedele del primo, ed è
proprio questo pilastro che fu sostituito all'incirca nel 1860 con la copia più
accurata ed esatta che oggi possiamo vedere. E quell'infedele riproduzione ha proprio
tutte le caratteristiche segnalate dal bravo Cambrici. Egli non è assolutamente
un truffatore, ma al contrario è stato ingannato da una copia poco scrupolosa,
quindi la sua buona fede è del tutto fuori causa e questo è quello che più ci
preme di stabilire".
***
Per meglio affermare la sua opinione
Grillot de Givry - ti noto occultista di cui parlava Jean Reyor - nel suo Museo
degli Stregoni mostra senza alcuna referenza, abbiamo già visto come, una prova
fotografica la cui riproduzione lascia vedere la recente fattura. E, in fondo,
quale può essere il valore esatto di questo documento di cui si servì come prova
nel suo libro per rigettare, con tutta l'apparenza della irrefutabilità, il
giudizio imparziale di Fulcanelli a proposito di François Cambrici; giudizio,
forse, severo ma certamente ben fondato e che invece Grillot de Givry, come
sappiamo, si guardò bene dal segnalare. Occultista nel senso assoluto, si
mostrò altrettanto discreto per quel che riguarda la provenienza della sua
sensazionale fotografia...
Non potrebbe forse essere successo,
più semplicemente, che questa statua, che starebbe al posto di quella tolta nel
secolo scorso all'epoca dei lavori di restauro di Viollet-le-Duc, fosse stata
presa in un altro posto e non a Notre-Dame de Paris, e che quindi sia
addirittura il ritratto d'un personaggio dell'antica Lutezio e non
dell'arcivescovo Marcello?...
Nell'iconografìa cristiana numerosi
santi sono raffigurati con il drago vicino, aggredente o sottomesso, e tra
questi possiamo nominare: Giovanni Evangelista, Giacomo Maggiore, Filippo,
Michele, Giorgio e Patrizio. Eppure, san Marcello è il solo che, col suo
bastone, tocchi la testa del mostro, grazie al rispetto che pittori e scultori
del passato ebbero sempre per la sua leggenda. Questa leggenda è molto ricca, e
tra gli ultimi fatti
della vita del vescovo si racconta questo avvenimento (Inter novissima ejus opera hoc annumeratur), riportato dal Padre
Gerard Dubois d'Orléans (Gerardo Dubois
Aurelianensi), nella sua Storia della Chiesa di Parigi (in Historia Ecclesiae Parisiensis) che noi adesso traduciamo dal
testo latino riassumendo:
«Una dama, più illustre per nobiltà di
nascita che per la sua condotta e la fama di buona reputazione, terminò i
giorni che le erano destinati, poi dopo un pomposo funerale, come si conveniva,
fu sepolta solennemente. Per punirla d'aver violato il letto nuziale, un
serpente terribile s'avvicinò alla sepoltura della donna, si nutrì delle sue membra
e del suo cadavere del quale aveva corrotto l'anima con i suoi funesti sibili.
Esso non permette ch'ella si riposi nella sua tomba. Ma avendo sentito del
rumore, i servi della donna defunta furono assai spaventati e cominciò ad
accorrere la popolazione della città per guardare lo spettacolo, e molti erano
allarmati alla vista dell'enorme animale...
«Il beato vescovo, avvertito, esce in
mezzo al popolo, e ordina che i cittadini si fermino e restino a guardare. Egli
stesso, sema timore, avanza verso il drago... che, come un supplicante, si
prosterna davanti alle ginocchia del santo vescovo, sembra fargli le feste e
chiedergli grazia. Allora Marcello, percuotendolo alla testa col suo bastone,
gettò su di lui la sua stola (Tum Marcellus caput ejus baculo percutiens, in
eum orarium1 (1 Orarium, quod vulgo stola dicitur
(Glossarium Cangii).
Orarium, ciò che generalmente è chiamato stola (Glossario di Du Cange) injecit); lo condusse poi in giro per due o
tre miglia, seguito dal popolo; egli traeva (extrahebat) la sua marcia solenne davanti a tutti i cittadini. Poi si
rivolse all'animale e gli comandò che d'allora in poi restasse sempre nel
deserto o che andasse a gettarsi nel mare...».
Sia detto, di sfuggita, che non c'è
neanche bisogno di sottolineare l'allegoria ermetica nella quale si distinguono
la via secca e la via umida. Questo racconto combacia perfettamente col 50°
emblema di Michele Maier nella sua Atalanta Fugiens, nel quale si vede un drago
che avvinghia una florida donna, vestita e nella pienezza della maturità, che
giace inerte nella sua fossa verosimilmente violata.
* * *
Ma torniamo alla presunta statua di
San Marcello, discepolo e successore di Prudenzio, che Grillot de Givry
pretende sia stata messa, verso la metà del XVI secolo, sul pilastro mediano
del portale sud, a Notre-Dame, cioè al posto dell'ammirevole originale, che è
invece conservato sull'altra riva del fiume, al Museo di Cluny. Precisiamo che la
statua ermetica è adesso conservata nella torre settentrionale della sua
primitiva dimora.
Per poterci schierare nettamente
contro l'affermazione in questione, priva d'ogni fondamento, possediamo
l'irrecusabile testimonianza del signor Esprit Gobineau de Montluisant, gentiluomo
di Chartres, tratta dal suo Explicatione
très-curieuse des Enigmes et Figures hierogliphiques, physiques, qui sont au
Grand Portail de l'Eglise Cathedrale et Metropolitaine de Notre Dame de Paris. Ed ecco, dal nostro testimone oculare, che
«osserva attentamente» le sculture, la prova che il tutto tondo, trasferito in
via Sommerard da Viollet-le-Duc, era sempre al suo posto, sul pilastro mediano
del portale destro il «mercoledì 20 Maggio 1640, vigilia dell'Ascensione
del nostro Salvatore Gesù Cristo»:
«Sul pilastro, c'è ancora l'immagine
d'un Vescovo, che mette il suo Pastorale nelle fauci d'un drago, il quale è
sotto i suoi piedi e sembra uscire dall'acqua, viste le onde che vi sono
scolpite, e tra queste onde appare la testa d'un Re che ha una corona triplice,
e che sembra annegare tra le onde e poi riemergere».
Questa storica descrizione, chiara e
decisiva, non scosse Marcel Clavelle (pseudonimo di Jean Reyor), che però fu
obbligato, per cavarsi d'impaccio, a trasferire sotto Luigi XIV, la nascita della
statua sconosciuta, finché Grillot, improvvisamente, in buona fede o in
malafede, non l'inventò addirittura. Probabilmente disturbato dalla medesima
prova evidente, Bernard Husson non se la cava in modo migliore, proponendo,
semplicisticamente che XVI secolo, a pag. 407 del Museo degli Stregoni, sia un refuso tipografico, ma per fortuna,
corretto nella leggenda da XVII secolo, cosa che invece non è, come si è
constatato prima.
***
E ancora, lasciando perdere
l'esattezza, non significa torse inconcepibile irriflessione ammettere che un
restauratore, all'epoca dei Valois, perseguendo una sua iniziativa, allo stesso
tempo colpevole e singolare, abbia portato in un museo, inesistente ai suoi
tempi, la magnifica statua? Essa invece si trova soltanto da poco più d'un
secolo in una sala delle Terme, scoperte in seguito ad alcuni lavori di ricostruzione
del bel palazzo opera di Jacques d'Amboise. E quanto sembra strano il seguito
della storia; cioè che quell'architetto del XVI secolo abbia mostrato, nei
riguardi di quella statua gotica ed imberbe, che egli avrebbe spostato, più
cura nel conservarla, di quanto abbia mostrato lo scrupoloso Viollet-le-Duc,
trecento anni dopo, per il vescovo barbuto, opera d'un suo lontano ed anonimo
collega!
Che Marcel Clavelle e Bernard Husson,
uno dopo l'altro, si siano scioccamente lasciati accecare dall'intenso piacere
di cogliere in fallo il grande Fulcanelli, passi pure; ma che Grillot de Givry sin
dall'inizio non abbia notato la monumentale illogicità della sua sconsiderata confutazione,
è una cosa che non sì riesce a comprendere.
Quindi, il lettore sarà certo
d'accordo con noi sul fatto che, in occasione della terza edizione del Mistero delle Cattedrali, era importantissimo che fosse chiaramente
stabilita la fondatezza del rimprovero di Fulcanelli, nei riguardi di Cambrici
e che, di conseguenza, fosse eliminato il pietoso equivoco creato da Grillot de
Givry; o, se si preferisce, che fosse realmente e definitivamente chiarita una
controversia che noi sapevamo tendenziosa e priva di un vero scopo.
Savignies,
luglio 1964
Eugène CANSELIET
IL MISTERO
DELLE CATTEDRALI
La più forte
impressione della nostra prima giovinezza, - avevamo sette anni, - quella della
quale conserviamo ancora un vivido ricordo, fu l'emozione provocata dalla vista
d'una cattedrale gotica al nostro animo fanciullo. Fummo immediatamente
trasportati, estasiati, colmi d'ammirazione, incapaci di staccarci dall'attrazione
del meraviglioso, dalla magia dello splendore, dell'immensità, della vertigine
che si sprigionavano da quell'opera più divina che umana.
Da allora la
visione si è trasformata, ma l'impressione è rimasta. E se la familiarità ha
modificato il carattere primaverile e patetico di quel primo contatto, non
abbiamo mai potuto impedirci di essere quasi rapiti in estasi davanti a quei
meravigliosi libri figurati innalzati sui nostri sagrati e che dispiegano fino
al cielo i loro fogli di pietra scolpita.
Con quali
parole, con quali mezzi potremmo esprimere loro la nostra ammirazione, il
sentimento di riconoscenza e tutti i sentimenti di gratitudine dì cui è colmo
il nostro cuore per tutto ciò che essi ci hanno insegnato a gustare, a
riconoscere, a scoprire, anche se essi non sono altro che dei muti capolavori,
veri maestri senza parole e senza voce?
Senza parole
e senza voce? - Cosa stiamo dicendo! Se questi libri di pietra hanno le loro
pietre scolpite - frasi in bassorilievi e pensieri in ogive - non per questo
non si esprimono per mezzo dello spirito imperituro che proviene dalle loro
pagine. Libri più che chiari dei loro fratelli minori, - manoscritti e
stampati, posseggono su di essi il vantaggio di tradurre un unico significato,
assoluto e di facile espressione, dall'interpretazione ingenua e pittoresca, un
significato purgato dalle sottigliezze, dalle allusioni, dagli equivoci
letterari.
«La lingua di
pietra parlata da questa nuova arte, dice assai veridicamente J. F. Colfs1
(1 J. F. Colfs, La Filiation
généalogique de toutes les Ecoles gothiques. Parigi,Baudry,1884.), è
contemporaneamente chiara e sublime. E quindi essa parla all'anima dei più
umili come a quella dei più colti. Che lingua patetica il gotico delle pietre!
Infatti è una lingua tanto patetica che le canzoni d'un Orlando di Lassus o di
un Palestrina, la musica per organo d'un Haendel o d'un Frescobaldi,
l'orchestrazione d'un Beethoven o d'un Cherubini e, ciò che è ancora più grande
di tutto questo, il semplice e severo canto gregoriano, che è forse il solo
vero canto, non si aggiungono che in sovrappiù alle emozioni che la cattedrale,
da sola, produce. Guai a coloro ai quali non piace l'architettura gotica, o,
per lo meno, compiangiamoli come persone che non hanno ereditato un cuore».
Santuario della Tradizione, della Scienza e
dell'Arte, la cattedrale non dev'essere guardata come un'opera dedicata unicamente
alla gloria del cristianesimo, ma piuttosto come un vasto agglomerato d'idee,
di tendenze, di credo popolari, un insieme perfetto al quale ci si può riferire
senza timore ogni volta che c'è bisogno di approfondire il pensiero degli antenati
in qualsiasi campo : religioso, laico, filosofico o sociale.
Le volte
ardite, la nobiltà delle navate, l'ampiezza delle proporzioni e la bellezza
dell'esecuzione fanno della cattedrale un'opera originale, dall'armonia
incomparabile, ma che non doveva essere completamente dedicata all'esercizio
del culto.
Se, sotto la luce spettrale e policroma delle
alte vetrate, il raccoglimento e il silenzio invitano alla preghiera e
predispongono alla meditazione, in compenso l'apparato, la struttura e gli ornamenti,
emanano e riflettono, con la loro straordinaria potenza, delle sensazioni i
meno edificanti, uno spirito più laico e, diciamo pure il termine, quasi
pagano.
Si possono
discernere, oltre all'ardente ispirazione nata da una solida fede, le mille preoccupazioni
della grande anima popolare, la affermazione della sua coscienza, della sua
propria volontà, l'immagine del suo pensiero, di tutto ciò ch'esso ha di
complesso, d'astratto, d'essenziale, di sovrano.
Se si va
nell'edificio per assistere alle funzioni religiose, se si entra al seguito
d'un corteo funebre o in mezzo all'allegro corteo d'una festa solenne, la calca
è grande anche in ben altre circostanze. Si tengono delle assemblee politiche
presiedute dal vescovo; si discute il prezzo del frumento e del bestiame; i
tessitori stabiliscono il prezzo delle stoffe; si accorre anche per cercare
conforto, per domandare consiglio, per implorare perdono. E non ci sono
corporazioni che non facciano benedire il capolavoro del nuovo confratello, che
non si riuniscano una volta l'anno sotto la protezione del loro santo patrono.
Durante tutto
il bel periodo medioevale furono conservate anche altre cerimonie, assai
gradite al popolo. C'era la Festa dei Pazzi - o dei Saggi, - «kermesse»
ermetica processionale che partiva dalla chiesa col suo papa, i suoi dignitari,
i suoi fedeli, il suo popolo - il popolo del medioevo, rumoroso, malizioso,
scherzoso, pieno di traboccante vitalità, di entusiasmo e di foga - e si
riversava in città... Ilare satira d'un clero ignorante, sottoposto
all'autorità della Scienza nascosta, schiacciato sotto il peso d'una
indiscutibile superiorità. Ah! La Festa dei Pazzi, col suo carro del Trionfo
di Bacco, trainato da un centauro e una centauressa, ambedue nudi come il
dio, che era accompagnato dal grande Pan; carnevale osceno che s'impossessava
delle navate ogivali! Ninfe e naiadi uscenti dal bagno; divinità dell'Olimpo,
senza nubi e senza tutù: Giunone, Diana, Venere, Latona si davano appuntamento
alla cattedrale per sentire la messa! E quale messa! Composta dall'iniziato
Pierre de Corbeil, arcivescovo di Sens, secondo un rituale pagano, e durante
la quale le fedeli dell'anno 1220 gridavano il grido di gioia dei baccanali:
Evohè! Evohè! E gli scolari rispondevano con entusiasmo delirante:
Haec est darà dies
clararum darà dierum!
Haec est festa dies
fesTarum festa dierum!1
(1
Questo giorno è celebre tra Ì giorni celebri!
Questo
giorno è giorno di festa tra i giorni dì festa!)
C'era anche la
Festa dell'Asino, quasi altrettanto
fastosa della precedente, con l'ingresso trionfale, sotto i sacri archetti, di Mastro Aliboron, il cui zoccolo, un
tempo, calpestava la pavimentazione giudea di Gerusalemme. Si celebrava il
nostro glorioso Cristoforo, con una funzione speciale con cui si esaltava, dopo
l'epistola, quella potenza asinina che ha
procurato alla Chiesa l'oro dell'Arabia, l'incenso e la mirra del paese di
Saba. Era questa una parodia grottesca che il prete, incapace di
comprendere, accettava in silenzio, con la fronte china sotto il peso del
ridicolo sparso in abbondanza, da quei mistificatori
del paese di Saba, o Caba, icabalisti
in persona! È lo scalpello degli imaigiers2 (2
Letteralmente fabbricanti d'immagini.
N.d.T.) del tempo, che ci da la conferma di quelle strane feste. Infatti, scrive
il Witkowski3 (3 G. J. Wilkowski. L'Art profane à l'Eglise. Etranger. Parigi, Schemit, 1908, p. 35.) descrivendo
la navata di Notre-Dame de Strasbourg, «il bassorilievo di uno dei capitelli
dei gran di pilastri riproduce una processione satirica nella quale si
distingue un maialetto che porta un'acquasantiera, seguito da alcuni asini
vestiti in abiti sacerdotali e da scimmie che portano diversi attributi della
religione ed anche da una volpe chiusa in gabbia. È la Processione della Volpe, o della Festa dell'Asino». Aggiungiamo che una scena identica, miniata, si
trova al folio 40 del manoscritto n. 5055 della Biblioteca nazionale.
C'erano,
infine, quelle bizzarre usanze dalle quali traspirava un significato (ermetico,
talvolta molto puro; usanze che ogni anno si rinnovellavano ed avevano come
teatro la chiesa gotica, tra esse la Flagellazione dell'Alleluia, nella quale i
chierichetti spingevano, a gran colpi di frusta, i loro sabot4 5
(4 Trottola dal profilo di Tau
o di Croce. Nella cabala, sabot
equivale a cabot o chabot, lo chat bottè (gatto con gli
stivali) dei Racconti di mia Madre l'Oca.
La focaccia dell'Epifania talvolta contiene un sabot invece della fava. 5 Sabot: zoccolo N.d.T.) rumorosi fuori dalla navata della chiesa
cattedrale di Langres; c'era poi il Convoi
de Carême-Prenant; la DiablerIe de
Chaumont; le processioni e i banchetti della Infanterie dijonnaise, ultima eco della Festa dei Pazzi, con la sua
Madre Pazza, i suoi diplomi
rabelaisiani, il suo stendardo sul quale due fratelli, uno a rovescio
dell'altro, si divertivano a scoprirsi le natiche;
e lo strano Gioco della Pelota che
era giocato nella navata di Saint-Etienne, cattedrale d'Auxerre, e che
scomparve, poi, verso il 1538; ecc...
II
La cattedrale
è anche l’ospitale aisilo di tutti i disgraziati. I malati che venivano a
Notre-Dame de Paris, per chièdere a Dio il lenimento delle loro sofferenze, vi
restavano fino alla completa guarigione. Era assegnata loro una cappella, posta
vicino alla seconda porta ed illuminata da sei lampade. Qui essi passavano la
notte. I medici visitavano i malati, proprio all'ingresso della basilica,
intorno all'acquasantiera. Ed è ancora là che la Facoltà di medicina, nel XIII secolo,
dopo essere uscita dall'Università per vivere indipendente, venne a tenere le sue
assemblee, stabilendovisi fino al 1454, data della sua ultima riunione,
convocata da Jacques Desparts.
Essa è anche
l'asilo inviolabile dei perseguitati e il sepolcro dei defunti illustri. È la
città nella città, il centro intellettuale e morale del tessuto urbano, cuore
dell'attività pubblica, apoteosi del pensiero, della scienza e dell'arte.
Con
l'abbondante fioritura della sua decorazione, con la varietà dei soggetti e
delle scene che l'adornano, la cattedrale si presenta come un'enciclopedia di
tutto il sapere medioevale, perfettamente completa ed assai variata, talvolta
ingenua, talvolta nobile, ma sempre vivente. Queste sfingi di pietra sono così
degli educatori, degli iniziatori di prim'ordine.
Da secoli il
guardiano di quest'ancestrale patrimonio è un vero e proprio popolo di irsute
chimere, di buffoni. di figurine, di mascheroni, di minacciosi doccioni
figurati - draghi, vampiri e tarasche1 (1 Specie di
manichino raffigurante un animale mostmoso che veniva portato in processione
alla Pentecoste in alcune città del Sud della Francia, in particolare a
Tarascona N.d.T.)
L'arte e la
scienza, un tempo concentrate nei grandi monasteri, fuggono dai laboratori,
corrono all'edificio, si avvinghiano ai campanili, ai pinnacoli, agli archi
rampanti, si sospendono alle volte, popolano le nicchie, trasformano le vetrate
in gemme preziose, il bronzo in vibrazioni sonore e sbocciano sui portali con
una gioiosa volata di libertà e di espressione. Niente di più laico
dell'esoterismo di questo insegnamento! Niente di più umano di questa
profusione d'immagini originali, viventi, libere, movimentate, pittoresche,
talvolta disordinate ma sempre interessanti; niente di più commovente di queste
innumerevoli testimonianze della vita quotidiana, del gusto dell'ideale, degli istinti
dei nostri padri; e soprattutto, niente di più avvincente del simbolismo dei
vecchi alchimisti, abilmente raffigurato dai modesti scultori di statue del
medioevo. A questo proposito, Notre-Dame de Paris, chiesa filosofale, è, senza
possibilità di smentita, uno dei i più perfetti prototipi del genere, come ha
scritto Victor Hugo, «il più soddisfacente compendio di scienza ermetica,
mentre la chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie ne era un geroglifico completo».
Gli
alchimisti del XIV secolo si incontravano una volta alla settimana, nel giorno
di Saturno, sia nel grande portico, sia al portale di San Marcello, oppure
anche presso la piccola Porta Rossa, tutta decorata di salamandre. Denys
Zachaire c'informa che questa usanza era ancora in vigore nel 1539, «di
domenica e nei giorni festivi», mentre Noel du Fail dice che «il luogo di
convegno di questi accademici era a Notre-Dame de Paris1 ». (1
Nöel du Fail, Propos mstiques,
baliverneries, contes et discours d'Eutrapel (cap. X). Paris, Gosselin,
1842.)
E qui, nello
splendore delle ogive dipinte e decorate2 (2 lle
cattedrali tutto era colorato o dipinto di vivaci colori. Fa fede di questo il
testo di Martirius, vescovo e viaggiatore armeno del XV secolo. Questo autore
dice che il portico di Notre-Dame de Paris risplendeva come l'ingresso del
paradiso. Vi si poteva ammirare il porpora, il rosa, l'azzurro, l'argento e
l’oro. Sulla sommità del timpano del gran portale si possono ancora scorgere
delle tracce di dorature. Il timpano della chiesa Saint-Germain-l'Auxerrois ha
conservato la sua volta azzurra costellata d'oro.), dei costoloni delle volte,
dei timpani dalle figure multicolori, ognuno illustrava il risultato dei suoi
lavori, spiegava l'indirizzo delle sue ricerche. Si esprimevano delle
probabilità; si discutevano le possibilità, si studiavano sul posto le
allegorie del bel libro e la parte più animata di queste riunioni era certo
l'astrusa esegesi dei simboli misteriosi.
Dopo Gobineau
de Montluisant, Cambrici e «tutti quanti»1 (1 In italiano
nel testo N.d.T.) gli altri, anche noi intraprendiamo il pio pellegrinaggio,
per parlare alle pietre ed interrogarle. Ahimè! è ormai tardi. Il vandalismo di
Sofflot ha distrutto gran parte di tutto quello che nel XVI secolo il
soffiatore poteva ammirare. E, se l'arte deve essere riconoscente agli eminenti
architetti Toussaint, Geoffroy Dechaume, BoeswillwaId, Viollet-le-Duc e Lassus,
che restaurarono la basilica, odiosamente profanata dalla Scuola, la Scienza
invece non ritroverà mai ciò che ha perduto.
Ma, comunque sia,
malgrado queste incresciose mulilazioni, i motivi che ancora esistono sono
ancora abbastanza numerosi tanto da non dover rimpiangere il tempo speso per
una visita del luogo. Ci riteniamo, quindi, soddisfatti e largamente
ricompensati del nostro sforzo se abbiamo potuto risvegliare la curiosità del
lettore, soffermare l'attenzione dell'osservatore sagace e mostrare agli amanti
dell'occulto che non è impossibile ritrovare il significato dell'arcano
nascosto sotto il guscio pietrificato di questo prodigioso libro di magia.
III
Prima
dobbiamo dire due parole sul termine (gotico, impiegato perl'arte francese che
impose il suo stile a tutta la produzione del medioevo e la cui espansione si
estende dal XII al XV secolo.
Alcuni
pretendono, a torto, che questa parola derivi dai Goti, antico popolo della Germania; altri hanno creduto che questa
forma d'arte venisse chiamata così, per la sua originalità e la nuovissima
singolarità che fecero scandalo nel XVII e XVIII secolo e che quindi, per
derisione, le fosse stato imposto un termine equivalente a barbara: questa è
l'opinione della Scuola classica, imbevuta dei decadenti prìncipi del
Rinascimento.
La verità,
che è sulla bocca del popolo, è riuscita a mantenere e conservare l’espressione
Arte gotica, nonostante gli sforzi
dell'Accademia per sostituirle quella di Arte
ogivale. Esiste in questo una ragioneoscura che avrebbe dovuto far
riflettere i nostri linguisti sempre allaricerca dell'etimologia. Qual è,
quindi, la ragione per cui pochissimi lessicologi si siano trovati nel giusto? -
Perché la spiegazione dev'essere cercata nell'origine cabalistica della parola anziché nella sua radice
letterale.
Alcuni autori
perspicaci, e non superficiali, colpiti dalla similitudine che esiste tra
gotico e gaelico hanno pensato che ci dovesse essere uno stretto rapporto tra Arte gotica e Arte gaelica o magica.
Per noi art
gotique1 (1 Si è preferito lasciare qui e altrove,
l'espressione arte gotica in lingua
francese perché il lettore possa rendersi conto del gioco di fonetica che rende
simili i termini «art gotique» e «argotique». In italiano infatti tale gioco
sarebbe intraducibile. Sul significato del termine argot, Fulcanelli è molto esauriente qualche rigo più sotto N.d.T.)
non è altro che una deformazione ortografica della parola argotique, la cui
omofonia è perfetta, conformemente alla legge
fonetica che regola la cabala fonetica in tutte le lingue e senza tener
conto alcuno dell'ortografia. La cattedrale, quindi, è un capolavoro d'art goth o d'argot 2 (2 Anche qui la pronuncia delle due
parole e la stessa N.d.T.).
Dunque i
dizionari definiscono la parola argot come
«il linguaggio particolare di tutti quegli individui che sono interessati a
scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli altri che stanno
intorno». È, quindi, una vera e propria cabala
parlata. Gli argotieri, quelli
che si servono d'un tale linguaggio, sono i discendenti ermetici degli argonauti, i quali andavano sulla nave Argo, parlavano la lingua argotica, - la nostra lingua verde - navigando verso le fortunate
rive della Colchide per conquistare il famoso Vello d'Oro. Ancor oggi si dice d'un uomo molto intelligente, ma
anche assai scaltro: sa tutto, capisce l'argot.
Tutti gl'Iniziati si esprimevano in argot,
anche i vagabondi della Corte dei Miracoli, - col poeta Villon alla loro testa,
- ed anche i Frimasons3 (3 Dall'inglese Free-mason (libero muratore), da cui derivano i corrispondenti termini in
italiano ed in francese: frammassone e fran-maçon N.d.T.), o frammassoni del
medioevo, «che costruivano la casa di Dio», ed edificavano i capolavori argotiques ancor oggi ammirati. "nche
loro, i nautes costruttori,
conoscevano la strada che portava al Giardino delle Esperidi...
Anche ai
nostri giorni gli umili, i miserabili, i disprezzati, i ribelli avidi di libertà
e d'indipendenza, i proscritti, i vagabondi ed i nomadi parlano in argot,
dialetto maledetto, bandito dalla buona società, da quei nobili che non lo sono
affatto, dai borghesi pasciuti e benpensanti, avvoltolati nell'ermellino della
loro ignoranza e della loro fatuità. L'argon resta il linguaggio d'una minoranza
d'individui che vivono al di fuori delle leggi codificate, delle convenzioni,
degli usi, del protocollo, ad essi si applica l'epiteto di voyous, cioè di voyants1
(1 In italiano: teppisti e veggenti. Come si nota la radice dei
termini francesi deriva dal verbo voir: vedere. In italiano questo doppio senso
è intraducibile N.d.T.), e, quello ancor più espressivo, di Figli o Bambini del sole. Infatti, l'arte gotica è l’art got o cot, l’arte della Luce e dello Spirito.
Si potrebbe
credere che questi siano soltanto dei giochi
di parole. Noi ne conveniamo di buon grado. L'essenziale è che guidino la
nostra fede verso una certezza, verso la verità positiva e scientifica, chiave
del mistero religioso e non la mantengano, invece, errante nel labirinto
capriccioso dell'immaginazione. Quaggiù non esistono né il caso né la
coincidenza, né i rapporti fortuiti; tutto è previsto, ordinato e regolato, e
non spetta a noi modificare a nostro piacimento la volontà imperscrutabile del
Destino. Se il senso comune delle parole non ci permette nessuna scoperta
capace di elevarci, d'istruirci, d'avvicinarci al Creatore, allora il
vocabolario diventa inutile. Il verbo, che assicura all'uomo l'incontestabile
superiorità e il potere sovrano, esercitato su tutti gli esseri viventi, perde,
in questo caso, la sua nobiltà, la sua grandezza, la sua bellezza e diventa
soltanto un'affliggente vanità. Ma la lingua, strumento dello spirito, vive di
per sé, anche se è solo il riflesso dell'Idea universale. Noi non inventiamo
nulla, non creiamo nulla. Tutto è in tutto. Il nostro microcosmo non è altro
che una particella, infima, animata, pensante, più o meno imperfetta del macrocosmo.
Ciò che noi crediamo di scoprire con lo sforzo della nostra intelligenza esiste
già da qualche altra parte. La fede ci da il presentimento di ciò che esiste; e
la rivelazione ce ne da la prova definitiva. Spesso noi passiamo accanto al
fenomeno o al miracolo, quasi lo tocchiamo, ma non lo vediamo neppure, come se
fossimo ciechi e sordi. Quante meraviglie, quante cose insospettate potremmo
scoprire se sapessimo sezionare le parole, romperne il guscio e liberare il
loro spirito, la luce divina da esse racchiusa! Gesù si esprimeva solo con
parabole; pos siamo noi negare la verità ch'esse ci insegnano? E, nella
conversazione corrente, non sono forse i doppi sensi, le approssimazioni, i
bisticci di parole o le assonanze che caratterizzano le persone di spirito, felici
di poter sfuggire alla tirannia della lettera, e che si mostrano, quindi, a
loro modo cabaliste senza saperlo?
Aggiungiamo,
infine, che l’argot è una delle forme
derivanti dalla Lingua degli Uccelli,
madre e signora di tutte le altre, lingua dei filosofi e dei diplomatici. È
quella lingua, appunto, della quale Gesù svela la conoscenza ai suoi apostoli,
inviando loro il suo spirito, lo Spirito Santo. Essa insegna il mistero delle
cose e svela le più nascoste verità. Gli antichi Incas la chiamavano Lingua di corte, perché era conosciuta
dai diplomatici, ai quali forniva così la chiave d'una duplice scienza : la
scienza sacra e la scienza profana. Nel medioevo era chiamata Gaia scienza o Gaio sapere, Lingua degli dei,
Diva-Bottiglia1 (1
La vita di Gargantua e Pantagruel, di
Francois Rabelais, è un'opera esoterica, un romanzo d'argot. In esso il buon
curato di Meudon si rivela un grande iniziato e un cabalista di prim'ordine.).
La Tradizione ci tramanda che gli uomini la parlavano prima della costruzione
della torre di Babele2 (2 La perifrasi, il costrutto ba
usato per bel. Anche qui c'è un gioco di cabala, intraducibile in italiano: la
tour de Babel (la torre di Babele) diventa la tour de Ba bel N.d.T.), che fu
causa della sua perversione, e per la maggioranza dei partecipanti fu anche
causa del totale oblio del sacro idioma. Oggi, a parte l'argot, ritroviamo un
po' di quell'antico carattere in alcune lingue locali come il piccardo, il
provenzale, ecc., e nel dialetto degli zigani.
La mitologia
vuole che il celebre indovino Tiresia3 (3 Si dice che
Tiresia avesse perso la vista per aver svelato ai mortali i segreti
dell'Olimpo. Eppure visse «sette, otto o nove volte il periodo di vita d'un
uomo» e, alternativamente, sarebbe stato uomo e donna!) abbia conosciuto
perfettamente la Lingua degli Uccelli
che gli sarebbe stata insegnata da Minerva, dea della Saggezza. Insieme a lui, sarebbero stati a conoscenza di questa
lingua anche Talete di Mileto, Melampo e Apollonio di Tiana4 (4 Filosofo la cui vita,
ricca di leggende, miracoli e fatti prodigiosi, appare assai ipotetica. Il nome
di questo personaggio quasi favoloso, ci sembra essere nient'altro che
un'immagine mito-ermetica del compost, o rebis filosofale, realizzato mediante
l'unione del fratello con la sorella, di Gabrizio con Beia, d'Apollo con Diana.
Perciò, se le meraviglie raccontate da Filostrato, sono effettivamente riferite
alla chimica, non ce ne stupiremo.) personaggi
fittizi i cui nomi parlano eloquentemente della scienza che ci interessa, e così
chiaramente che non abbiamo bisogno di analizzarli in queste pagine.
IV
Tranne
qualche rara eccezione, la pianta delle chiese gotiche, cattedrali, abbaziali o
conventuali, assume la forma di una croce latina stesa al suolo. Ma la croce è il geroglifico alchemico del crogiuolo, un tempo chiamato cruzol, crucibile e croiset1
(1 Termini intraducibili N.d.T.) (nel tardo latino, crucibulum, crogiuolo, ha per radice crux, crucis, croce, secondo Du Cange).
Ed è infatti
proprio nel crogiuolo che la materia prima, come lo stesso Cristo, patisce la
Passione; essa muore nel crogiuolo per risuscitare poi, purificata,
spiritualizzata, già trasformata. Del resto il popolo, fedele guardiano delle
tradizioni orali, non esprime forse il sacrificio terreno degli uomini con
delle parabole religiose e delle similitudini ermetiche? - Portare la croce, salire il calvario, passare nel crogiuolo dell'esistenza, sono altrettante locuzioni
correnti nelle quali ritroviamo lo stesso senso nascosto sotto lo stesso
simbolismo.
Non
dimentichiamo che intorno alla croce
luminosa vista in sogno da Costantino apparvero queste parole profetiche,
che egli fece dipingere sul suo labaro:
In hoc signo vinces; con questo segno
vincerai. Alchimisti, fratelli miei, ricordatevi anche che la croce reca l'impronta di tre chiodi
che servirono ad immolare il Cristo-materia, immagine delle tre purificazioni
che devono esser fatte col ferro e col fuoco. Parimenti meditate questo chiaro
brano di sant'Agostino della sua Disputa
con Trifone (Dialogus cum Triphone,
40) : «Il mistero dell'agnello che
Dio aveva ordinato di sacrificare a Pasqua, egli dice, rappresentava la figura del Cristo, quelli che credono in
lui tingono col suo sangue le loro case, cioè se stessi mediante la fede che
hanno in lui. Ora, quest'agnello, che
la legge prescriveva di fare arrosto
tutto intero, era il simbolo della
croce che il Cristo doveva patire. Perché l'agnello, per essere arrostito,
è disposto in modo da raffigurare una croce: uno degli spiedi di legno lo
traversa da una parte all'altra, dall'estremità inferiore fino alla testa,
l'altro spiedo attraversa le spalle e ad esso si legano i piedi anteriori
dell'agnello (in greco: le mani).»
La croce è un
simbolo molto antico, usato in ogni tempo; in qualsiasi religione, presso tutti
i popoli, e sarebbe uno sbaglio considerarla come simbolo speciale del
cristianesimo, come dimostra assai abbondantemente l'abate Ansault1
(1 Vedi: abate Ansault, La
Croix avant Jésus-Christ, Paris V. Rétaux, 1894.). Diremo anche che la
pianta dei grandi edifici religiosi del medioevo, con l'adozione di un'abside semicircolare
o ellittica saldata al coro, segue perfettamente la forma del segno ieratico
egiziano della croce ansata, che si legge ank,
ed indica la Via universale nascosta
nelle cose. Se ne può vedere un esempio nel museo di Saint-Germain-en-Laye, su
di un sarcofago cristiano proveniente dalle cripte arlesiane di Saint-Honorat.
D'altra parte, l'equivalente ermetico del segno ank è l'emblema di Venere o
Cipride (in greco ……, l'impura), il
rame volgare che alcuni altri, per nascondere ancora di più il senso, hanno
tradotto con bronzo ed ottone. «Imbianca l'ottone e brucia i
tuoi libri» ci ripetono tutti gli autori migliori. (parola greca) è lo stesso
di (parola greca), zolfo, che significa ingrasso, sterco, letame, immondizia.
Il Cosmopolita scrive: «II saggio troverà la nostra pietra perfino nel letame
mentre l'ignorante non potrà neanche credere ch'essa esista nell'oro.»
Così la
pianta dell'edificio cristiano, col segno della Croce, ci rivela la qualità
della materia prima, e la sua preparazione; per gli alchimisti
quest'indicazione termina con l'ottenimento della Prima pietra, pietra angolare
della Grande Opera filosofale. Su questa pietra
Gesù ha costruito la sua Chiesa; e i liberi muratori medioevali hanno seguito
simbolicamente l'esempio divino. Ma prima che fosse tagliata, per servire di base per l'opera d'arte gotica così come
per l'opera d'arte filosofale, questa pietra ancora grezza, impura, materiale e
grossolana era lavorata per raffigurare l'immagine del diavolo.
Notre-Dame de
Paris possedeva un geroglifico simile, che si trovava sotto la tribuna,
all'angolo della clausura del coro. Era una statua del diavolo, che spalancava
un'enorme bocca nella quale i fedeli venivano a spegnere i loro ceri; di modo
che il blocco scolpito appariva sporco di gocce di cera e di nerofumo. Il
popolo chiamava questa statua Mastro
Pietro del Cantone, nome che è stato sempre incomprensibile agli
archeologi. Questa figura, destinata a rappresentare la materia iniziale
dell'Opera, umanizzata sotto le spoglie di Lucifero
(che porta la luce, - la stella
del mattino), era il simbolo della nostra pietra
angolare, la pietra del cantone, la pietra maestra del cantone. «La
pietra che i costruttori hanno scartato, scrive Amyraut2 (2
M. Amyraut, Paraphrase de la Première
Epìtre de saint Pierre (capitolo II, v. 7). Saumur, Jean Lesnier. 1646, p.
27.), è diventata la pietra maestra
d'angolo, sulla quale si basa tutta la struttura dell'edificio; ma essa è
anche un ostacolo e pietra dello scandalo, contro la quale essi si scagliano
andando incontro alla propria rovina.» Per quel che riguarda il taglio di
questa pietra angolare - intendiamo qui la sua preparazione - lo si può veder
interpretato in un bellissimo bassorilievo dell'epoca, scolpito all'esterno
dell'edificio, su di una cappella absidale, dalla parte di via del
Cloitre-Notre-Dame.
V
Mentre al tailleur d'imaiges 1 (1
Cesellatore, scultore d'immagini sacre
N.d.T.) era riservata la decorazione delle parti elevate, al ceramista era
attribuito il compito di ornare il pavimento delle cattedrali. Esso,
generalmente, era lastricato o pavimentato mediante delle mattonelle di
terracotta dipinte e ricoperte con uno smalto al piombo. Quest'arte aveva
raggiunto nel medioevo una perfezione sufficiente ad assicurare ai soggetti
istoriati una bastevole varietà di disegni e di colori. Si usavano anche dei
piccoli cubi multicolori di marmo alla maniera dei mosaisti bizantini. Tra i
motivi usati più di frequente, è bene parlare dei labirinti, tracciati sul
suolo nel punto d'intersezione della navata col transetto. Le chiese di Sens,
di Reims, di Auxerre, di Saint-Quentin, di Poitiers, di Bayeux hanno conservato
i loro labirinti. Nel labirinto di Amiens si notava, al centro, una grande
lastra, nella quale era incastonata una sbarra d'oro e un semicerchio dello
stesso metallo, che raffigurava l'alzarsi del sole sulla linea dell'orizzonte.
Più tardi il sole d'oro fu sostituito da un sole di rame, poi spari anche
quest'ultimo e non fu mai più rimesso a posto. Quanto al labirinto di Chartres,
chiamato volgarmente la lega (sta per
il luogo)2 (2 Anche questo è un esempio di cabala
fonetica, Lieue (lega) e lieu (luogo) si pronunciano, in
francese, allo stesso modo N.d.T.) e disegnato sul pavimento della navata, si
compone di tutta una serie di cerchi concentrici che si ripiegano gli uni sugli
altri con un'infinita varietà di combinazioni. Un tempo al centro di questa figura,
si notava il duello tra Teseo ed il Minotauro. Questa è un'altra prova
dell'infiltrazione dei soggetti pagani nella iconografia cristiana e di
conseguenza è anche prova d'un senso mito-ermetico evidente. Però il problema
non è di stabilire un qualsiasi rapporto tra queste immagini e le famose
costruzioni dell'antichità: i labirinti di Grecia e d'Egitto.
Il labirinto
delle cattedrali, o labirinto di Salomone,
e, ci dice Marcellin Berthelot1 (1 Vedi: La Grande Encyclopedie. Voce:
Labyrinthe. T. XXI, pag 703.), «una figura cabalistica che si trova anche sul frontespizio
di alcuni manoscritti alchimici e che fa parte delle tradizioni magiche attribuite
a Salomone. È una serie di cerchi concentrici, interrotti in certi punti, in
modo da formare un percorso bizzarro ed inestricabile».
L'immagine
del labirinto ci si offre dunque come emblema dell'intero lavoro dell'Opera,
con le sue due maggiori difficoltà: quella della strada da seguire per
raggiungere il centro, - nel quale si scatena il duro duello delle due nature, -
e l'altra quella della strada che l'artista deve seguire per uscirne. A questo
punto ha bisogno del filo d'Arianna
se non vuole vagare tra i meandri dell'opera senza riuscire a scoprire
l'uscita.
Non è nostra
intenzione scrivere, come fece Batsdorff, uno speciale trattato per insegnare
che cos'è il filo d'Arianna, che
permise a Teseo di compiere la sua impresa. Ma appoggiandoci alla cabala
speriamo di fornire agli investigatori sagaci alcune precisazioni sul valore
simbolico del famoso mito.
Arianna
è una forma di airagne (ragno), per metatesi della i. In spagnolo, la ñ si
pronuncia gn; (parola greca)
(araignée, airagne2 (2 Anche nella parola italiana ragno
è evidente la derivazione dal greco. Qui abbiamo mantenuto tali e quali i
termini di passaggio dal greco ai vari dialetti francesi, altrimenti
intraducibili N.d.T.)) si può dunque leggere arahné, arahni, arahgne. La nostra anima non è forse il
ragno che tesse il nostro corpo? Ma questa parola richiede ancora altre
derivazioni. Il verbo ….. significa prendere, cogliere, trascinare, attirare;
da esso deriva ….., ciò che prende, attira, coglie. Quindi ….. è la calamità,
la virtù rinchiusa in quel corpo chiamato dai saggi: nostra magnesia. Proseguiamo. Nel dialetto pro venzale,
il ferro è chiamato aran e iran secondo le varie inflessioni. È l’Hiram massonico, il divino Ariete, l'architetto del Tempio di Salomone. I
felibri chiamano il ragno aragno e iragno e anche airagno; i piccardi aregni.
Accostate tutte queste parole al greco ……, ferro e calamita. Questa parola ha
ambidue i significati. E non è tutto. Il verbo ….. significa l'alzarsi di un astro che esce dal mare: da
esso deriva ….. (aryan), l'astro che esce
dal mare, che sorge; …… o ariane
è quindi l'Oriente, per la
permutazione delle vocali. Inoltre, …. ha anche il significato di attirare;
quindi ….. è anche: calamita. Se ora esaminiamo …….., da cui deriva il latino sidus sideris, stella, riconosceremo il
nostro aran, iran, airan provenzale,
il greco ….., il sole sorgente.
Arianna,
ragno mistico, fuggita da Amiens, ha lasciato sul pavimento del coro soltanto
la traccia della sua tela...
Ricordiamo
rapidamente che il più celebre dei labirinti antichi, quello di Cnosso a Creta,
che fu scoperto nel 1902 dal dottor Evans, di Oxford, era chiamato Absolum. A questo punto, faremo notare che
questa parola è assai vicina a quella di Absolu1
(1 Assoluto N.d.T.), nome con il quale gli antichi alchimisti
indicavano la pietra filosofale.
VI
Tutte le
chiese hanno l'abside rivolto verso sud-est e la loro facciata verso
nord-ovest, mentre i transetti, che formano il braccio trasversale della croce,
sono orientali nella dirczione nord-est, sud-ovest. Questa orientazione è
invariabile, deliberatamente voluta, in modo che i fedeli ed i profani entrando
in chiesa da Occidente, avanzassero dritti verso il santuario con la faccia
rivolta verso il luogo da cui sorge il
sole, verso Oriente, la Palestina, culla del cristianesimo. Essi lasciano
le tenebre e vanno verso la luce.
In seguito a
questa disposizione, uno dei tre rosoni che ornano il transetto e il grande
portico non è mai illuminato dal sole; è il rosone settentrionale che s'irradia
nella faccia del transetto sinistro. Il secondo fiammeggia al sole di
mezzogiorno; è il rosone aperto alla estremità del transetto destro. L'ultimo
s'illumina ai raggi colorati del sole che tramonta; è il grande rosone del
portale, di gran lunga più grande, per estensione e per bellezza, dei suoi
fratelli laterali. In questo modo, sul frontone delle cattedrali gotiche, si
succedono i colori dell'Opera, secondo un processo circolare che va dalle
tenebre, - rappresentate dall'assenza e dal color nero, - alla perfezione del colore
rosso, passando per il color bianco, considerato come «una media tra il nero e
il rosso».
Nel medioevo, il rosone centrale dei portici
si chiamava Rota,la ruota. Ora, la ruota è il geroglifico alchemico del
tempo necessario alla cottura della materia filosofale e, in seguito,
rappresentò la cottura stessa. Il fuoco sostenuto, costante ed eguale che
l'artista mantiene giorno e notte durante questa operazione, è chiamato,
perciò, fuoco di ruota. Però, oltre
al colore necessario alla liquefazione della pietra filosofale, c'è bisogno in
più di un secondo agente, chiamato fuoco
segreto o filosofico. È proprio
quest'ultimo fuoco, risvegliato dal calore volgare, che fa girare la ruota e provoca i diversi fenomeni che l'artista osserva nel proprio vaso 1 (1
De Nuysement, Poème philosophic de la
Verité de la Phisique Mineralle, in Traittez
de l'Harmonie et Constilution generalle du Vray Sel. Parigi, Périer e
Buisard, 1620 e 1621, p. 254.):
D'aller par ce chemin,
non ailleurs, je t'avoue;
Remarque seulement les traces de ma roue.
Et pour donner partout
une chaleur égalle,
Trop tost vers terre et
del ne monte ny dévalle.
Car en montant trop haut
le ciel tu brusleras,
Et devallant trop bas la
terre destruiras.
Mais si par le milieu ta
carrière demeure,
La course est plus unie et la voye
plus seure 2.
(2
Ti confesso che io procedo per questa strada e non per un'altra; Nota soltanto le orme della mia ruota. / E per
distribuire dappertutto un uguale calore, / Fai attenzione a non montare ne a
discendere troppo, verso il cielo o verso la terra. / Perché montando troppo
brucerai il cielo, / E andando troppo in basso brucerai la terra. / Ma se
procederai nel giusto mezzo, / L'andamento è più regolare e la strada è più
sicura (N.d.T.).
La rosa
rappresenta, quindi, da sola la durata del fuoco e la sua azione. Per questa
ragione i decoratori medioevali hanno cercato di tradurre, nei loro rosoni, i
movimenti della materia eccitata dal fuoco elementare, come si può notare sul
portale nord della cattedrale di Chartres, nei rosoni di Toul (Saint-Gengoult),
di Saint-Antoine de Compiègne, ecc.. Nell'architettura dei secoli XIV e XV, la
preponderanza del simbolo igneo, che caratterizza nettamente l'ultimo periodo dell'arte
medioevale, ha fatto chiamare lo stile di quest'epoca: Gotico fiammeggiante.
Alcuni
rosoni, emblemi dell'amalgama, hanno un senso particolare che sottolinea ancora
di più le proprietà di questa sostanza che il Creatore ha firmato di sua mano.
Questo magico sigillo rivela all'artista che la strada seguita è quella giusta
e che la mistura filosofale è stata preparata canonicamente. Si tratta d'una
figura radiale a sei punte (digamma), chiamata Stella dei Magi, che brilla alla
superficie del compost1 (1 Fango dall'odore pestilenziale
proveniente dalle impurità e da quella parte di zolfo dei filosofi che non s'è
potuto amalgamare. Il compost si presenta sotto vari aspetti di diversi colori:
marrone scuro, alla prima cottura; va poi verso il nero, il grigio ed anche il
verde N.d.T.), cioè al di sopra della mangiatoia in cui riposa Gesù, il
Bimbo-Re.
Tra gli
edifici che ci mostrano i rosoni stellati a sei petali, - riproduzione del
tradizionale Sigillo di Salomone2 (2 Il giglio delle
convalli poligonale, chiamato comunemente Sigillo
di Salomone, deve il suo nome allo stelo, la cui sezione è stellata, come
il segno magico attribuito al re degli Israeliti, figlio di David.), - citiamo
la cattedrale di Saint-Jean e la chiesa Saint-Bonaventure de Lyon (rosoni dei
portali); la chiesa di Saint-Gengoult a Toul; i due rosoni di Saint-Vulfran
d'Abbeville; il portale della Calenda nella cattedrale di Rouen; lo splendido
rosone blu della Sainte-Chapelle, ecc...
Poiché questo
segno è del massimo interesse per un
alchimista, - non si tratta forse dell'astro che lo guida e gli annuncia la
nascita del Salvatore? - sarà per noi un piacere riunire qui alcuni brani da
testi che riferiscono, descrivono e spiegano la sua apparizione. Lasceremo al
lettore la cura di stabilire tutti gli accostamenti più utili, di coordinare le
varie versioni, di isolare la verità positiva che, in questi frammenti
enigmatici, è mescolata all'allegoria della leggenda.
VII
Varrone, nel
suo Antiquitates rerum humanarum,
ricorda la leggenda d'Enea, che salva il padre ed i penati dalle fiamme di Troia e che giunge, dopo lunghe peregrinazioni, nei campi di
Laurento1 (1 Secondo
le regole della cabala si tratta di l'or
enté (l'oro innestato).), termine del
suo viaggio. Egli spiega così l'avvenimento:
Ex quo de Troja est egressus Aeneas,
Veneris eum per diem quotidie stellam vidisse, donec ad agrum Laurentum
veniret, in quo eam non vidit ulterius; qua recognovit terras esse fatales2 (2 Varro, in Servius,
Aeneid, t. III, p. 386.). (Dopo la sua partenza da Troia, Enea vide tutti i giorni e
durante il giorno la stella di Venere, fin quando non arrivò nei campi di
Laurento, dove cessò di vederla, cosa che gli fece capire che quelle erano le terre designate dal Destino).
Ecco adesso
una leggenda, estratta da un'opera che ha per titolo : Libro di Seth, riportata nei seguenti termini da un autore del VI
secolo3 (3 Opus
imperfectum in Mattheum. Hom. II
unito alle Oeuvres de saint Jean
Chrysostome, Patr. grecque. t. LVI, p. 637.):
«Ho udito
alcune persone parlare d'una Scrittura che, anche se poco certa, non è
contraria alla fede ed è anche una bella storia che merita d'essere udita. In
essa si legge che esisteva un popolo, nell'Estremo Oriente, sulla riva
dell'Oceano, che possedeva un Libro attribuito a Seth, nel quale si parlava
della futura apparizione di questa stella e dei doni che si dovevano portare al
Bambino; si considerava questa predizione come trasmessa da generazioni di
Saggi, di padre in figlio,
«Essi
scelsero dodici Saggi, tra i più sapienti del loro popolo e tra i maggiormente
dediti all'osservazione dei misteri dei cieli, e si prepararono all'attesa di
questa stella. Se qualcuno di questi Saggi moriva, un suo figlio od un parente
prossimo, anch'esso in attesa dello stesso avvenimento, era scelto per
sostituirlo.
«Nella loro
lingua costoro erano chiamati Magi,
perché glorificavano Dio in silenzio
e a bassa voce.
«Ogni anno
questi uomini, dopo la mietitura, salivano su di un monte che, nella loro
lingua, si chiamava Monte della Vittoria;
ed era un monte assai bello per i ruscelli e gli alberi che gli facevano
corona; su questo monte si trovava una
caverna ricavata nella roccia. Arrivati in cima, si lavavano, poi pregavano
e lodavano Dio in silenzio per tre giorni;
questa pratica era seguita ad ogni generazione, sempre nell'attesa che questa stella di felicità apparisse durante la
loro generazione. E, finalmente, essa apparve, sul Monte della Vittoria, sotto le spoglie d'un piccolo bambino che mostrava la figura
d'una croce; essa parlò loro, diede loro le istruzioni necessario ed ordinò
di partire per la Giudea.
«Così la
stella li precedette per due anni, e mai, durante il viaggio, venne a mancare
il pane o l'acqua.
«Ciò che essi
fecero in seguito è riportato più brevemente nel Vangelo.»
Secondo
questa leggenda, d'epoca differente, la forma della stella sarebbe stata
diversa1 (1 Apocryphes, t. II, p. 469.):
«Durante il
viaggio, durato tredici giorni, i Magi non mangiarono né dormirono; né essi ne
provarono il bisogno, e questo periodo sembrò loro che avesse la durata d'un
giorno. Più s'avvicinavano a Betlemme, più la stella brillava con splendore;
essa aveva la forma di un'aquila, che volasse per aria agitando le ali; al di
sopra di essa c'era una croce.»
La leggenda
seguente, che ha come titolo Fatti
accaduti in Persia, al tempo della nascita di Cristo, è attribuita a Giulio
l'Africano, cronista del III secolo, benché non si sappia a quale epoca essa
appartenga realmente2 (2 Julius Africanus, in Patr.
grecque. t. X, pp. 97 e 107.):
«L'episodio accadde
in Persia, in un tempio di Giunone (parola greca), costruito da Ciro. Un
sacerdote annuncia che Giunone ha concepito. — A questa notizia tutte le statue
degli dei danzano e cantano. — Una stella
scende dal cielo e annuncia la nascita d'un Bambino Principio e Fine. —
Tutte le statue cadono bocconi. — I Magi annunciano che questo Bambino è nato a
Betlemme e consigliano al re di mandare ambasciatori. — Allora appare Bacco ( parola
greca), che predice che questo Bambino scaccerà tutti i falsi dèi. — Partenza dei
Magi, guidati dalla stella. Giunti a Gerusalemme, essi annunciano ai sacerdoti
la nascita del Messia. — A Betlemme, essi salutano Maria, e fanno dipingere da
un abile schiavo, il suo ritratto col Bambino; questo ritratto viene poi messo
nel loro tempio principale con questa iscrizione: A Giove mitra (parole greche,
— al dio sole), al grande Dio, al re Gesù, l'impero dei Persiani fa questa
dedica.»
«La luce di
questa stella, scrive sant’Ignazio3 (3 Lettera agli abitanti di Efeso, c. XIX) di
tutte le altre; il suo splendore era ineffabile, e la sua novità faceva si che
tutti quelli che la guardavano erano colmi di stupore. Il sole, la luna e gli altri astri formavano il cuore di questa stella.»
Huginus a
Barma, nella Pratica della sua opera1
(1 Huginus a Barma, Le Règne
de Saturne changé en siècle d'or. Parigi, Derieu, 1780.), usa gli stessi termini
per parlare della materia della Grande Opera sulla quale appare la stella:
«Prendete della vera terra, egli
dice, ben impregnata di raggi di sole, di
luna e degli altri astri.»
Nel IV
secolo, il filosofo Calcidio che, a detta di Mullachio, ultimo dei suoi
editori, proclamava che si dovevano adorare gli dei della Grecia, gli dei di
Roma e gli dei stranieri, ha mantenuto il racconto della stella dei Magi e la
spiegazione che di essa fornivano i sapienti. Dopo aver parlato di una stella
chiamata Ahc dagli Egiziani e che
sarebbe stata foriera di disgrazie, aggiunge:
«C'è anche
un'altra storia più sacra e venerabile, che attesta come, con il sorgere di una certa stella furono annunciate, non morti e
malattie, ma la venuta d'un Dio venerabile, perché parlasse agli uomini e
perché fosse d'aiuto alle miserie terrene. I
più saggi tra i Caldei, avendo visto
questa stella, da uomini bene esercitati alla contemplazione dei fenomeni
celesti, viaggiarono di notte e
cercarono, secondo quanto si dice, la
nascita recente d'un Dio, ed avendo riconosciuto la maestà di questo
Bambino, gli resero gli omaggi che si convenivano ad un Dio così grande. Cosa che a voi è nota più che ad ogni altro2
(2 Calcidio, Comm. in Timoeum
Platonis, e. 125; sta nei Frag.
philosophorum graecorum di Didot, t. II, p. 210. - Evidentemente Calcidio
si rivolge ad un iniziato.).»
Diodoro di Tarso3 (3 Diodoro
di Tarso, Du destin, sta in Photius, cod. 233; Patr. grecque, t. CHI, p. 878.) si mostra ancor più positivo quando
afferma che «questa stella non era una di quelle che popolano il cielo, ma una certa virtù o forza (parola greca) urano-diurna
(parola greca), che ha preso la forma d'un nastro per annunciare la nascita del
Signore di tutti».
Vangelo secondo san Luca, II, v. da 1 a 7 :
« Ora, nella medesima contrada, si trovavano
dei pastori che passavano la notte nei campi, vegliando a turno per far la
guardia alle loro greggi. Ecco che si presentò loro un Angelo del Signore, ed una luce divina li avvolse, essi furono
presi da grande spavento: ma l'Angelo disse loro:
«Non temete,
perché io vi porto la Buona Novella
fonte di grande gioia per tutto il popolo; oggi è nato per voi nella città di
David un Salvatore che è il Cristo-Signore; e questo per voi sarà il segno: troverete un Bambino avvolto in panni e posto in una mangiatoia.
«Nello stesso
istante la moltitudine della milizia celeste si unì all'Angelo, lodando Dio e
dicendo: Gloria a Dio. nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di
buona volontà.»
Vangelo secondo san Matteo. II v. da 1 a 1 1 :
«Quando Gesù
nacque a Betlemme, città di Giuda, al tempo del re Erode, giunsero dall'Oriente
a Gerusalemme dei Magi, dicendo: Dove è Colui che è nato, re dei Giudei, perché
noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo?
«... Allora
Erode, chiamati segretamente i Magi, s'informò accuratamente sul periodo nel quale era loro apparsa la
stella, e mandandoli a Betlemme, disse :
«Andate,
informatevi esattamente sul Bambino e, quando lo avrete trovato, fatemelo
sapere, affinchè, anch'io, vada ad adorarlo.
«Essi dunque,
dopo aver udito il re, se ne andarono; ed ecco che la stella che avevano visto
in Oriente apparve nuovamente e li precedeva fino a quando non andò a posarsi sopra il luogo nel quale era il Bambino.
«Ora, vedendo
la stella, essi si rallegrarono assai e, entrando nella casa, trovarono il
Bambino con Maria, sua madre, e prosternandosi l'adorarono; poi aperti i loro
forzieri, gli offrirono dei regali: oro, incenso e mirra.»
A proposito
di fatti così strani e davanti all'impossibilità d'attribuirne la causa a
qualche fenomeno celeste, A. Bonnetty1 (1 A. Bonnetty, Documents historiques sur la Religion dea
Romains, t. II, p. 564.), colpito dal mistero che avvolge questi racconti,
si chiede :
«Chi sono
questi Magi e cosa si deve pensare di questa stella? È ciò che in questo
momento si domandano i critici razionalisti ed altri ancora. È difficile
rispondere a questa domanda perché il Razionalismo e l'Ontologismo, antichi e
moderni, poiché estraggono tutte le loro conoscenze da se stessi, hanno fatto
dimenticare tutti i mezzi mediante i quali gli antichi popoli dell'Oriente
conservavano le tradizioni primitive.»
La prima
menzione della stella la troviamo sulla bocca di Balaam. Costui sarebbe nato
nella città di Pethor, sull'Eufrate, e viveva, dicono, verso l'anno 1477 a.C.,
in regione centrale dell'impero assiro, allora ai suoi inizi. Profeta o Mago in
Mesopotamia, Balaam esclamava:
«Come potrei
io maledire colui che il suo Dio non maledice? Come potrei dunque minacciare
colui che Jehohav non minaccia? Ascoltate!... Io lo vedo, ma non adesso; io lo
contemplo ma non da vicino... Sorge da
Gìacobbe una stella e da Israele nasce un segno... » (Num., XXIV, 47).
Nell'iconografìa
simbolica la stella serve ad indicare sia il concepimento che la nascita.
Spesso la Vergine è rappresentata cinta da un'aureola di stelle. Quella di
Larmor (Morbihan), fa parte d'un trittico molto bello sulla morte del Cristo e
la sofferenza di Maria, — Mater dolorosa,
— nel cielo della composizione centrale si possono vedere il sole, la luna, le
stelle e la sciarpa di Iride, la Vergine, poi, tiene nella mano destra una
grande stella, — maris stella, — epiteto
dato alla Vergine in un inno cattolico.
G. J.
Witkowski1 (1 G.J. Witkowski, L'Art profane à l'Eglise. Francia, Parigi, Schemit, 1908, p. 382.) ci
descrive una vetrata assai curiosa, che si trovava vicino alla sacrestia,
nell'antica chiesa, oggi distrutta, di Saint-Jean a Rouen. Questa vetrata
raffigurava il Concepimento di san Romano.
«Suo padre. Benedetto, consigliere di Clotario II, e sua madre Felicita, erano
distesi su di un letto, interamente nudi, secondo l'usanza che durò fino alla
metà del XVI secolo. Il concepimento era rappresentato da una stella che brillava sulla coperta a contatto
del ventre della donna... La cornice di questa vetrata, già strana per
l'argomento principale trattato, era ornata di medaglioni nei quali si
distinguevano, non senza sorpresa, le figure di Marte, Giove, Venere, ecc..., e perché non si avessero dubbi sulla
loro iden tità, la figura di ogni divinità era accompagnata dal proprio nome.»
VIII
Come l'anima
umana ha i suoi segreti recessi, così la cattedrale ha i suoi corridoi
nascosti. Il loro insieme, (dal greco ……, nascosto) costituisce la cripta che
si estende sotto il livello della chiesa).
In questo
luogo basso e umido e freddo, il visitatore avverte una singolare sensazione
che impone il silenzio: quella della potenza unita alle tenebre. Qui siamo
nell'asilo dei morti, come nella basilica di Saint-Denis, necropoli degli
illustri; come nelle Catacombe romane, cimitero dei cristiani. Lastre di
pietre; mausolei di marmo. sepolcri; resti di storia, frammenti del passato. Un
silenzio triste ed oppressivo riempie questi spazi coperti a volta. I mille
rumori del di fuori, varie eco del mondo, non arrivano più fino a noi. Finiremo
con l'arrivare alle caverne dei ciclopi? Siamo sulla soglia dell'inferno
dantesco, o sotto le gallerie sotterranee, così accoglienti, così ospitali per
i primi martiri? — Tutto è mistero, angoscia e paura in questo antro oscuro...
Attorno a
noi, numerosi pilastri enormi, massicci, talvolta abbinati, innalzati sui loro
basamenti larghi e smussati. Capitelli corti, poco sporgenti, sobri, tozzi.
Forme rozze e povere, nelle quali l'eleganza e la ricchezza cedono il passo
alla solidità. Muscoli spessi, contratti per lo sforzo, che si dividono, senza
venir meno, il formidabile peso dell'intero edifìcio. Volontà notturna, muta, rigida,
tesa in una perpetua resistenza contro la pressione. Forza materiale che il costruttore
ha saputo ordinare e dividere, dando a tutte queste parti l'aspetto arcaico
d'una mandria di elefanti fossili, saldati gli uni con gli altri, arrotolando i
loro dorsi ossuti, scavando i loro ventri pietrificati sotto la spinta d'un
carico eccessivo. Forza reale ma occulta che si attua in segreto, si sviluppa
nell'ombra, agisce senza tregua nella profondità delle sostruzioni dell'opera.
Questa è l'impressione predominante che il visitatore avverte percorrendo le gallerie
delle cripte gotiche.
Un tempo, le
camere sotterranee dei templi servivano come dimora per le statue di Iside, ed esse diventarono, al tempo
dell'introduzione del cristianesimo in Gallia, quelle Vergini nere che il popolo, ai giorni nostri, circonda d'una
venerazione tutta particolare. Del resto il simbolismo tra queste due
raffigurazioni è lo stesso: le une e le altre mostrano sul loro basamento la
famosa iscrizione: Virgini pariturae; alla
Vergine che deve partorire. Ch. Bigarne1 (1 Ch. Bigarne,
Considérations sur le Culle d'Isis chez
les Eduens. Beaune, 1862.), ci parla di parecchie statue di Iside designate
dallo stesso vocabolo. L'erudito Pierre Dujois ci dice: «Già nella sua Bibliografia generale dell'Occulto, il
sapiente Elias Schadius aveva segnalato, nel suo libro De dictis Germanicis, un'iscrizione analoga: Isidi, seu Virgini ex qua filius proditurus est2 (2
A Iside, o alla Vergine dalla quale nascerà il Figlio.). Queste icone, dunque,
non avevano per nulla il significato cristiano, che comunemente viene loro
dato, almeno dal punto di vista esoterico. Bigarne dice che Iside, prima della concezione
è, secondo la teogonia astronomica, l'attributo di quella Vergine che parecchi
monumenti, molto più antichi del cristianesimo, indicano col nome di Virgo paritura, cioè la terra prima d'essere fecondata, e che
sarà ben presto rianimata dai raggi del sole. È anche la madre degli dei, come
attesta una pietra di Dio: Matri Deum
Magnae ideae». Il senso esoterico
delle nostre Vergini nere non può esser
meglio definito. Esse raffigurano, nella simbologia ermetica, la terra primitiva, quella che l'artista
deve scegliere come soggetto della propria grande opera. È la materia prima
allo stato di minerale, come e quando viene estratta dai filoni metalliferi,
profondamente nascosta sotto la massa rocciosa. I testi ci dicono che è «una sostanza
nera, pesante, friabile, fragile, che ha l'aspetto d'una pietra e può essere
frantumata in piccoli pezzi proprio come una pietra». Sembra dunque normale che
il geroglifico umanizzato di questo minerale abbia il suo stesso colore
caratteristico e che gli si riservi come sede i luoghi sotterranei dei templi.
Ai nostri
giorni, le Vergini nere non sono numerose. Ne citeremo alcune, che godono di
gran celebrità. La cattedrale di Chartres sotto questo punto di vista è la più
favorita; infatti ne possiede due, una, chiamata con l'espressivo nome di Notre-Dame-sous-Terre, è posta nella
cripta, ed è seduta su di un trono il cui basamento reca l'iscrizione già nota:
Virgini pariturae; l'altra si trova
nella chiesa, è chiamata Notre-Dame-du-Pilier,
occupa il centro di una nicchia piena di ex
voto in forma di cuori che mandano raggi. Witkowski ci dice che
quest'ultima è oggetto di devozione da parte d'un gran numero di pellegrini.
«Un tempo, aggiunge questo autore, la colonna di pietra che gli fa da supporto
era "scavata" dalle lingue e dai denti dei suoi focosi fedeli, come
il piede di san Pietro, a Roma, o il ginocchio di Ercole, adorato dai pagani in
Sicilia; ma per preservarla da quei baci troppo ardenti, la colonna fu avvolta,
nel 1831, con un rivestimento in legno». Chartres, con la sua Vergine
sotterranea, è considerata la più antica meta dei pellegrinaggi. Un tempo c'era
soltanto un'antica statuetta di Iside «scolpita prima di Gesù Cristo», come
raccontano alcune antiche cronache locali. Però, l'immagine che possediamo ora
data soltanto dalla fine del XVIII secolo, perché quella della dea Iside era
stata distrutta non si sa quando, e sostituita con una statuetta in legno, che
teneva il Bambino seduto sulle ginocchia, e che, a sua volta, fu bruciata nel
1793.
Quanto alla
Vergine nera di Notre-Dame du Puy — le cui membra non sono visibili — ha la
forma d'un triangolo, con il vestito che la cinge al collo e si allarga senza
pieghe fino ai piedi. La stoffa è decorata con tralci di vite e di spighe di
grano — allegorie del pane e del vino eucaristici — e lascia passare,
all'altezza dell'ombelico, la testa del Bambino, incoronato altrettanto
sontuosamente della madre.
Notre-Dame-de-Confession,
celebre Vergine nera delle cripte di Saint-Victor a Marsiglia, ci mostra un
bello specimen di statuaria antica, morbida, larga e grassa. Questa figura,
piena di nobiltà, tiene nella mano destra uno scettro ed ha la fronte cinta da
una corona a triplice fiorone (tav. I).
Notre-Dame de
Rocamadour, meta d'un famoso pellegrinaggio, già frequentata nell'anno 1166, è
una madonna miracolosa; la tradizione fa risalire la sua origine al giudeo
Zaccheo, capo dei pubblicani di Gerico; questa statua sovrasta l'altare della
cappella della Vergine, costruita nel 1479. È una statuetta di legno, annerito
dal tempo, rivestita da una veste di lamine d'argento che consolidano i resti
in legno ormai tarlati. «La celebrità di Rocamadour risale al leggendario
eremita, santo Amatore o Amadour, che scolpì in legno la statuetta della
Vergine alla quale furono attribuiti parecchi miracoli. Si racconta che Amatore
era lo pseudonimo del pubblicano Zaccheo, convertito da Gesù Cristo; venuto in
Gallia, avrebbe diffuso il culto della Vergine. Questo culto è molto antico a Rocamadour;
però, la gran voga del pellegrinaggio data soltanto dal XII secolo1
(1 La Grande Encyclopédie,
t. XXVIII, p. 761.).»
A Vichy si
venera, da epoca molto antica, la Vergine nera della chiesa di Saint-Blaise,
come testimonia Antoine Gravier, prete partigiano dell'indipendenza dei comuni
nel XVII secolo. Gli archeologi datano questa scultura del XIV secolo e, poiché
le parti più antiche della chiesa di Saint-Blaise, nella quale è posta, furono
costruite solo nel XV secolo, l'abate Allot, segnalandoci questa statua, esprime
il parere ch'essa un tempo facesse parte della cappella Saint-Nicolas, fondata
nel 1372 da Guillaume de Hames.
Anche la
chiesa di Guéodet, chiamata Notre-Dame-de-la-Cité, a Quimper, possiede una
Vergine nera.
Camille
Flammarion1 (1 Camille Flammarion, l'Atmosphère. Parigi, Hachette, 1888, p. 362.) ci parla d'una statua
analoga ch'egli vide, nei sotterranei dell'Osservatorio, il 24 settembre 1871,
due secoli dopo la prima osservazione termometrica, che fu fatta nel 1671. Egli
scrive : « Il colossale edificio di Luigi XIV che eleva la balaustra della
terrazza a ventotto metri dal suolo, scende nel sottosuolo con delle fondazioni
che hanno la stessa profondità: ventotto metri. All'angolo d'una galleria
sotterranea, si nota una Vergine, messa in quello stesso anno 1671, e dei versi
incisi ai suoi piedi la invocano col nome di Notre-Dame di sottoterra). Questa poco conosciuta Vergine parigina,
che impersonifica nella capitale il misterioso soggetto di Ermes, sembra che
sia una replica di quella di Chartres, la Benedetta
Signora sotterranea.
Ancora un
particolare utile per l'ermetista. Nel cerimoniale prescritto per le
processioni delle Vergini nere, venivano bruciati soltanto ceri di color verde.
Quanto alle
statuette d'Iside, — parliamo di quelle che sono sfuggite alla
cristianizzazione, — sono ancora più rare delle Vergini nere. Forse sarebbe
utile ricercarne la ragione nell'alta antichità di queste icone. Witkowski2
(2 L'Art profane a l'Eglise.
Op. cit., p. 26.) ce ne segnala una sistemata nella cattedrale Saint-Etienne, a
Metz. «Questa figura in pietra di Iside, scrive l'autore, misura o m. 43 di
altezza e o m. 29 di larghezza e proviene dal vecchio chiostro. La sporgenza di
questo altorilievo era di o m. 18; rappresentava un busto nudo di donna, ma così
magro che, per servirci d'un'espressione figurata dell'abate Brantóme,
"non poteva mostrare altro che la carcassa "; la sua testa era coperta da un velo. Due mammelle
asciutte pendevano dal suo petto, simili a quelle delle Diane di Efeso. La pelle
era tinta di rosso, e il drappo che cingeva la vita era nero... Una statua analoga esisteva a Saint-Germain-des-Prés e a
Saint-Etienne de Lyon.»
Tuttavia, il
culto di Iside, la Cerere egiziana, era molto misterioso, e tale rimane anche
per noi. Sappiamo soltanto che la dea era festeggiata solennemente, ogni anno,
nella città di Busiris, e che le veniva sacrificato un bue. Ci dice Erodoto : «Dopo
il sacrifìcio, uomini e donne, parecchie migliala, si danno dei grandi colpi.
Per quale dio si stanno battendo, sarebbe, io credo, un'empietà dirlo.» I
Greci, come gli Egiziani, mantenevano un assoluto silenzio sui misteri del
culto di Cerere e gli storici non ci hanno appreso nulla che possa soddisfare
la nostra curiosità. La rivelazione ai
profani del segreto di queste pratiche era punito con la morte. Ascoltare
la divulgazione era considerato un crimine della stessa gravita. Come per i
santuari egiziani di Iside, così nei templi di Cerere era rigorosamente vietato
l'ingresso a tutti coloro che non avevano ricevuto l'iniziazione. Eppure, le
informazioni che ci sono state tramandate, sulla gerarchia dei grandi
sacerdoti, ci autorizzano a pensare che i misteri di Cerere dovevano essere
dello stesso tipo di quelli della Scienza ermetica. Infatti sappiamo che i
ministri del culto si dividevano in quattro gradi: lo Ierofante, incaricato d'iniziare i neofiti; il Porta-fiaccola, che rappresentava il Sole; 1'Araldo, che
rappresentava Mercurio; il Ministro dell'Altare, che rappresentava la
Luna. A Roma le Cerealies si celebravano il 12 aprile e duravano otto giorni.
Veniva portato in processione un uovo,
simbolo del mondo, e ad esso venivano sacrificati dei maiali.
Abbiamo detto
prima che Die, una statua che rappresentava Iside, era chiamata madre degli dei. Lo stesso epiteto era
riservato a Rea o Cibele. Così le due divinità si rivelano parenti assai
prossime, e noi saremmo piuttosto dell'idea di considerarle come espressioni
diverse d'un solo e unico principio. Charles Vincens conferma questa opinione
con la descrizione ch'egli fornisce d'un bassorilievo raffigurante Cibele, che,
per secoli, è stato visto all'esterno della chiesa parrocchiale di Pennes
(Bouches-du-Rhóne), con la sua iscrizione: Matri
Deum. «Questo strano frammento, ci dice il Vincens, è scomparso soltanto
intorno al 1610 ma è riprodotto in una incisione nel Recueil di Grosson (p.
20).» Analogia ermetica strana: Cibele era adorata a Pessinunte, in Frigia,
sotto la forma di una pietra nera che
si diceva essere caduta dal cielo. Fidia rappresenta la dea seduta su di un
trono tra due leoni, essa ha sul capo
una corona murale dalla quale scende un velo.
Talvolta viene raffigurata mentre tiene una chiave e sembra che stia togliendo il velo. Iside, Cerere,
Cibele: tre teste sotto lo stesso velo.
IX
Terminati
questi preliminari, dobbiamo adesso intraprendere lo studio ermetico della
cattedrale e per porre un limite alla nostra ricerca prendiamo come tipo il
tempio cristiano della capitale, Notre-Dame de Paris.
Certo il
nostro compito è difficile. Non viviamo più al tempo di messer Bernardo, conte
di Treviso, di Zachaire o di Flamel. I secoli hanno lasciato una traccia
profonda sulla facciata dell'edificio, le intemperie hanno scavato rughe
profonde, ma le distruzioni compiute dal tempo sono ben poca cosa se paragonate
a quelle prodotte dai furori umani. Le rivoluzioni hanno inciso la loro
impronta, incresciosa testimonianza della collera plebea; il vandalismo, nemico
del bello, ha sfogato il suo odio con spaventose mulilazioni, ed anche i
restauratori, sebbene ispirati dalle migliori intenzioni, non hanno sempre
saputo rispettare ciò che gli iconoclasti avevano risparmiato.
Un tempo,
Notre-Dame de Paris innalzava la sua maestà in cima ad una scalinata di undici
gradini. Appena isolata, da uno stretto sagrato, dalle case di legno, dagli
acuti pignoni disposti a piani in aggetto, essa guadagnava in arditezza ed in
eleganza ciò che perdeva in massa. Oggi invece, e grazie all'arretramento,
sembra più massiccia quanto più è distaccata, con i portici, i pilastri e i
contrafforti poggianti direttamente a terra; i successivi rinterri, a poco a
poco, hanno colmato il dislivello e finito con l'assorbirlo fino all'ultimo gradino.
In mezzo a
quello spazio limitato, da una parte, dall'imponente basilica e, dall'altra,
dal pittoresco agglomerato di piccoli alberghi ornati di frecce, spighe,
banderuole, traforati dalle «boutiques» dipinte con le travi scolpite, con le
burlesche insegne, scavati agli angoli di nicchie, ornate di madonne o di
santi, fiancheggiati da torrette, da garitte di vedetta, da bertesche, in mezzo
a questo spazio, dicevamo, era eretta una statua di pietra, alta e sottile, che
teneva in una mano un libro e nell'altra un serpente. Questa statua faceva
parte d'una fontana monumentale sulla quale si leggeva questo distico:
Qui sitis, huc tendas:
desunt si forte liquores,
Pergredere, aeternas
diva paravi! aquas.
O
tu che hai sete, vieni qui: se per caso mancano le onde,
Per
gradi, la Dea ha preparato le acque eterne.
Il popolo lo
chiamava ora Signor Legris, ora Venditore di gris, Gran Digiunatore o Digiunatore
di Notre-Dame.
Questi strani
appellativi hanno ricevuto parecchie interpretazioni ma le espressioni popolari
non sono state identificate dagli archeologi e così neppure la statua. La
spiegazione migliore è quella che ci da Amédée de Ponthieu1 (1
Amédée de Ponthieu, Légendes du Vieux
Paris. Parigi, Bachelin, Deflorenne, 1867, p. 91.), ed essa ci sembra tanto
più degna d'interesse, perché l'autore, che non era assolutamente un ermetista,
giudica senza pregiudizi e parla senza idee preconcette:
«Davanti a
questo tempio, ci racconta parlando di NotreDame, s'innalzava un monalito
sacro, reso informe dal tempo. Gli antichi lo chiamavano Febigene2 (2 Generato dal sole o dall'oro),
figlio d'Apollo; il popolo lo chiamò più tardi Mastro Pietro, volendo così significare Pietra maestra, pietra di
potere3 (3 È la pietra angolare della quale abbiamo
parlato.); si chiamava anche messere Legris, allora gris significava fuoco e
in particolare fuoco grisù, fuoco
fatuo...
«Secondo
alcuni, queste informi sembianze ricordano quelle d'Esculapio, o di Mercurio o del dio Termine4 (4 Termini erano dei busti di
Ermete (Mercurio)); secondo altri sarebbero le sembianze di Archambaud, maestro
di Palazzo sotto Clodoveo II, che aveva regalato il fondo sul quale era stato
costruito l'Hôtel-Dieu; altri credevano di scorgere i tratti di Guillaume de
Paris, che l'aveva innalzata contemporaneamente al portale di Notre-Dame; l'abate
Leboeuf dice di vedervi la figura di Gesù Cristo; altri quella di santa Geneviève,
patrona di Parigi.
«Questo
monolito fu tolto nel 1748, quando fu allargata la piazza del Sagrato di
Notre-Dame.»
All'incirca
nello stesso periodo, il capitolo di Notre-Dame ricevette l'ordine di
sopprimere la statua di san Cristoforo. Il colosso dipinto in grigio1
(1 Rinascimento N.d.T.), si addossava al primo pilastro di destra,
entrando nella navata. Era stata eretta nel 1413 da Antoine des Essarts,
ciambellano del re Charles VI. La si volle togliere nel 1772, ma Christophe de
Beaumont, allora arcivescovo di Parigi, si oppose formalmente. Solo alla sua
morte, nel 1781, la statua fu trainata fuori della città e spezzata. Notre-Dame
d'Amiens possiede ancora il buon gigante cristiano che portò il Bambino Gesù,
ma non deve essere sfuggito, neppure lui, alla distruzione perché, ora, fa
corpo con il muro: è una scultura in bassorilievo. Anche la cattedrale di
Siviglia conserva un san Cristoforo colossale e affrescato. Quello della chiesa
di Saint-Jacques-la Boucherie fu distrutto insieme all'edificio e la bella statua
della cattedrale d'Auxerre, datata 1539, fu distrutta dietro ordini precisi,
nel 1768, solo qualche anno prima di quella di Parigi.
Per motivare
queste decisioni, è evidente che c'era bisogno di ragioni più che solide.
Sebbene sembrino ingiustificate, ci pare che la causa derivi dal significato
simbolico ricavato dalla leggenda e condensato — certo troppo chiaramente —
dalla rappresentazione. San Cristoforo, di cui Jacques de Voragine ci rivela
l'antico nome: Offerus, il cui
significato è, secondo la maggioranza, colui che porta il Cristo (dal greco ……..);
ma la cabala fonetica svela un altro significato, adatto e conforme alla
dottrina ermetica. Cristoforo sta per Crìsoforo:
che porta l'oro (dal greco ……..). Si capisce meglio quindi l'alta importanza
che, simbolicamente, è rivestita da san Cristoforo. Si tratta del geroglifico
dello zolfo solare (Gesù) o dell'oro nascente, innalzato sulle onde
mercuriali e poi portato, dall'energia propria di questo Mercurio, al grado di
potenza posseduta dall'Elisir. Secondo Aristotele, il Mercurio ha come colore emblematico
il grigio o il viola, cosa che in sé basta per spiegare perché le statue di san
Cristoforo erano dipinte dello stesso colore. Un certo numero di vecchie
incisioni, conservate nel Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Nazionale, e
che rappresentano il colosso, sono eseguite con un tratto semplice e di color
bistro. La più antica di esse è del 1418.
A Rocamadour
(Lot) si può ancora vedere una gigantesca sta tua di san Cristoforo, innalzata sul
podio Saint-Michel, che precede la chiesa. Accanto si nota un vecchio forziere ferrato, sopra il quale è
conficcato nella roccia e tenuto da una catena un grossolano mozzicone di
spada. La leggenda vuole che questo frammento sia appartenuto alla famosa Duranda, la spada che il paladino Rolando
spezzò aprendo la breccia di Roncisvalle. Comunque sia, la verità che sgorga da
questi particolari è assai limpida. La spada che apre la roccia, la verga di
Mosè che fa scaturire l'acqua dalla pietra di Horeb, lo scettro della dea Rea,
con cui ella colpisce il monte Dindimo, il giavellotto d'Atalanta sono un unico
e medesimo geroglifico di questa materia nascosta dei Filosofi, della quale san
Cristoforo indica la natura e il forziere ferrato il risultato.
Ci dispiace
di non poter dire di più sul magnifico emblema al quale era riservato il primo
posto nelle basiliche ogivali. Di queste grandi raffigurazioni, gruppi
ammirabili per l'insegnamento che contenevano, non ci resta nessuna descrizione
precisa e dettagliata; essefurono fatte sparire da un'epoca decadente e
superficiale, senza neanche la scusa d'una indiscutibile necessità.
Il XVIII
secolo, regno dell'aristocrazia e del bello spirito, degli abati di corte,
delle marchese imbellettate, dei gentiluomini con le parrucche, tempo benedetto
dei maestri di ballo, dei madrigali e delle pastorelle alla Watteau, secolo
brillante e perverso, frivolo e manierato che doveva finire nel sangue, fu
particolarmente nefasto per le cattedrali gotiche.
Gli artisti,
trascinati dalla grande corrente di decadenza che ebbe sotto François I il nome
paradossale di Renaissance1 (1 Rinascimento. N.d.T.),
incapaci d'uno sforzo creativo eguale a quello dei loro antenati, completamente
all'oscuro della simbologia medioevale, si dedicarono alla riproduzione di
opere bastarde, senza gusto né carattere, senza pensiero esoterico, invece di
continuare e sviluppare l'ammirevole e sana creatività francese.
Architetti,
pittori, scultori, preferendo la loro gloria a quella dell'Arte, si ispirarono
agli antichi modelli contraffatti in Italia.
I costruttori
del medioevo erano ricchi di fede e modestia. Artigiani anonimi di puri
capolavori, essi costruirono per la Verità, per l'affermazione del loro ideale,
per diffondere la nobiltà della loro scienza. Quelli del Rinascimento, invece,
preoccupati soprattutto della loro personalità, gelosi del proprio valore,
costruirono per rendere famoso il loro nome alla posterità. Il medioevo deve il
proprio splendore all'originalità delle proprie creazioni; il Rinascimento deve
la sua moda alla servile fedeltà delle sue copie. Là un pensiero, qui una moda.
Da un lato, il genio; dall'altro, il talento. Nell'opera gotica, la tecnica
resta sottomessa all'Idea: mentre nell'opera rinascimentale la tecnica domina e
cancella l'Idea. L'una parla al cuore, al cervello, all'anima: è il trionfo
dello spirito; l'altra si rivolge ai sensi: è la glorificazione della materia.
Dal XII al XV secolo, povertà di mezzi ma ricchezza d'espressione; a partire
dal XVI, bellezza plastica, mediocrità d'invenzione. I mastri medioevali
seppero animare il comune calcare; gli artisti del Rinascimento lasciarono il
marmo freddo ed inerte.
L'antagonismo
di questi due periodi, nati da concezioni opposte, spiega il disprezzo del
Rinascimento e la sua profonda ripugnanza per tutto quello che era gotico.
Un tale stato
di spirito doveva risultare fatale all'opera del medioevo; e sono dovute
proprio ad esso le numerosissime mulilazioni che oggi dobbiamo deplorare.
PARIGI
I
La cattedrale
di Parigi, come la maggioranza delle basiliche metropolitane, è posta sotto
l'invocazione della benedetta Vergine Maria o Vergine-Madre. In Francia il
popolino chiama queste chiese le Notre-Dame.
In Sicilia, esse hanno un nome ancora più espressivo, quello di Matrici. Si tratta, quindi, proprio di
templi dedicati alla Madre (lat. mater,
matris), alla Matrone nel senso
primitivo, questo termine, per corruzione, è diventato poi Madone1 (1 Si è preferito lasciare il
vocabolo francese per una migliore comprensione del passaggio tra Matrone e
Madone N.d.T.) (ital. madonna), mia Signora e, per estensione, Notre-Dame. Attraversiamo
il cancello del porticato ed iniziamo lo studio della facciata del gran
portale, chiamato atrio centrale o del Giudizio.
Il pilastro
di mezzo, che divide in due il vano d'ingresso, ci offre una serie di
rappresentazioni allegoriche delle scienze medioevali. Di fronte al Sagrato, —
ed al posto d'onore, — l'alchimia è raffigurata da una donna la cui fronte
tocca le nubi. Seduta in trono, ella ha nella mano sinistra uno scettro — segno
di sovranità — mentre con la destra tiene due libri, uno chiuso (esoterismo) e
l'altro aperto (essoterismo). Mantenuta tra le sue ginocchia e poggiata sul suo
petto si eleva la scala dai nove gradini, — scala
philosophorum, — geroglifico della pazienza che deve essere posseduta dai
suoi fedeli nel corso delle nove successive operazioni della fatica ermetica (tav.
II). «La pazienza è la scala dei Filosofi, ci dice Valois1 (1
Oeuvres de Nicolas Grosparmy et Nicolas
Valois. Mss. Biblioteca dell'Arsenal n. 2516 (166 S.A.F.), p. 176), e l'umiltà
è la porta del loro giardino, perché a chiunque persevererà senza orgoglio e
senza invidia. Dio farà misericordia.»
Tale è il
titolo del capitolo filosofale di quel mutus
Liber rappresentato dal tempio gotico; tale il frontespizio di questa
Bibbia occulta dai massicci fogli di pietra; questa l'impronta, il sigillo
della Grande Opera laica sul frontone stesso della Grande Opera cristiana. Non
poteva essere meglio situato se non sulla soglia stessa dell'ingresso
principale.
Così la
cattedrale ci appare basata sulla scienza alchemica, investigatrice delle
trasformazioni della sostanza originale, della Materia elementare (lat. materea,
radice mater, madre). Perché la
Vergine-Madre, spogliata del suo velo simbolico, non è altro che la
personificazione della sostanza primitiva, di cui si è servito, per realizzare
i suoi fini, il Principio creatore di tutto ciò che esiste. Questo è il significato,
del resto assai chiaro, di quella singolare epistola che viene letta alla messa
dell'Immacolata-Concezione della Vergine ed eccone il testo:
«Il Signore
mi ha posseduta all'inizio delle sue vie. Io ero prima che egli plasmasse qualsiasi altra creatura. Io ero
nell'eternità prima che venisse creata la
terra. Gli abissi non erano ancora ed io ero già concepita. Le sorgenti non
erano ancora uscite dalla terra; la pesante massa delle montagne non era stata
ancora formata; ero già nata prima delle colline. Egli non aveva ancora creato
ne la terra, ne i fiumi, ne consolidato la terra mediante i due poli. Quando egli
preparava i Cieli, io ero presente; quando circoscrisse gli abissi con i loro
limiti e stabilì una legge inviolabile; quando stabilizzò l'aria attorno alla
terra; quando equilibrò l'acqua delle sorgenti; quando rinchiuse il mare nei
suoi limiti e quando impose una legge alle acque perché non superassero i
confini loro assegnati; quando gettò le fondamenta della terra, io ero con lui
e regolavo tutte le cose.»
Chiaramente
qui si tratta dell'essenza stessa delle
cose. E, infatti, le litanie c'insegnano che la Vergine è il Vaso che contiene lo Spirito delle cose: Vas
spirituale. Scrive Etteilla1 (1 Etteilla, Le Denier du Pauvre, nelle Sept nuances de l'Oeuvre philosophique s.l.n.d.
(1786), p. 57.): «Su di un tavolo, all'altezza del petto dei Magi c'erano, da
un lato un libro o un in sieme di fogli o lamine d'oro (il libro di Thot) e
dall'altro lato un vaso pieno d'un
liquore celeste-astrale, composto per un terzo di miele selvatico, d'una
parte d'acqua terrestre e d'una parte d'acqua celeste... Il segreto, il
mistero, dunque, stava nel vaso.»
Questa
Vergine singolare, — Virgo singularis,
come l'indica espressamente la Chiesa, — è, per di più, glorificata con degli
epiteti che indicano sufficientemente la sua origine positiva. Non è chiamata,
infatti, anche: Palma della Pazienza (Palma
patientiae); Giglio tra le spine2 (2 È il titolo di
manoscritti alchemici celebri di Agricola e di Ticinensis. Vedi biblioteche di
Rennes (159); di Bordeaux (533); di Lyon (154); di Cambrai (919)) (Lilium inter spinas); Miele simbolico di Sansone; Chioma di Gedeone; Rosa mistica; Porta del Cielo;
Casa d'Oro, ecc.? Gli stessi testi
chiamano Maria anche Sede della Saggezza,
in altri termini Soggetto della Scienza
ermetica, della sapienza universale. Nel simbolismo dei metalli planetari è
rappresentata dalla Luna, che riceve
i raggi del Sole e li conserva segretamente nel suo seno. È la dispensatrice
della sostanza passiva, animata dallo spirito solare. Quindi Maria, Vergine e
Madre, rappresenta la forma; mentre Elia, il Sole, Dio, il Padre è l'emblema
dello spirito vitale. Dall'unione di questi due principi scaturisce la materia
vivente, sottomessa alle vicissitudini delle leggi di mutazione e di
progressione. È, cioè. Gesù, lo spirito incarnato, il fuoco corporificato nelle
cose che ci sono familiari quaggiù :
e il verbo si
è fatto carne, ed ha abitato tra di noi
Del resto la
Bibbia c'insegna che Maria, madre di Gesù, era del ramo di Jessé. Ora, la
parola ebrea Jes significa fuoco, sole, divinità. Essere del ramo di Jessé, significa quindi, essere
della razza del fuoco, del sole. Poiché la materia trae origine dal fuoco solare, come abbiamo visto, il
nome stesso di Jésus1 (1 Gesù N.d.T.) ci appare nel suo
originale splendore celeste: fuoco, sole, Dio.
Infine,
nell'Ave Regina, la Vergine è chiamata propriamente Radice (Salve, radix);
quest'appellativo fa notare ch'ella è il principio e l'inizio di Tutto. «Salve,
o radice, attraverso la quale la Luce ha brillato sul mondo.»
Queste sono
le riflessioni suggerite dall'espressivo bassorilievo che accoglie il
visitatore sotto il portico della basilica. La Filosofia ermetica, le vecchia
Spagiria gli danno il benvenuto nella chiesa gotica, tempio alchemico per
eccellenza. Perché la cattedrale tutt'intera non è altro che una glorificazione
muta, ma espressa con immagini, dell'antica scienza di Ermes di cui essa ha
saputo, del resto, conservare uno degli antichi artigiani. Infatti, Notre-Dame
de Paris conserva il proprio alchimista.
Se spinti
dalla curiosità, o per dare uno scopo piacevole alla passeggiata senza meta
d'un giorno d'estate, salite la scala a chiocciola che porta alle parti alte
dell'edifìcio, percorrete lentamente il passaggio, scavato come un canale per
lo smaltimento delle acque, sulla sommità della seconda galleria. Giunti vicino
all'asse mediano del grande edificio, all'altezza dell'angolo rientrante della
torre settentrionale, noterete, in mezzo ad un corteo di chimere, il
sorprendente rilievo d'un grande vecchio di pietra. È lui, è l'alchimista di Notre-Dame
(tav. III).
Col capo
coperto dal cappello frigio, attributo dell'Adeptato2 (2 II
berretto frigio, che copriva il capo dei sanculotti e costituiva una specie di
talismano protettore, in mezzo alle stragi della rivoluzione, era il segno
distintivo degli Iniziati. Il dotto Pierre Dujois, — nell'analisi che egli fa
di un'opera di Lombard (de Langres) intitolata: Histoire des Jacobins, depuis 1789 jusqu'à ce jour, ou Etat de
l’'Europe en novembre 1820 (Parigi, 1820) — scrive che giunto al grado di
Epopte (nei Mystères d'Eleusis), «si
chiedeva al novizio se si sentiva la
forza, la volontà e la dedizione richieste per porre mano alla GRANDE OPERA.
Allora gli si posava in capo un berretto rosso, pronunciando queste parole:
«Copriti con questo berretto, vale più della corona d'un re». Si era, quindi,
ben lontani dal pensare che questo tipo di petaso, chiamato liberia nelle Mithriache, e che un tempo serviva ad indicare gli schiavi
affrancati, fosse un simbolo massonico e il segno supremo dell'Iniziazione. Non
ci si stupirà più di vederlo raffigurato sulle nostre monete ed i nostri
monumenti pubblici».), posato negligentemente sulla lunga capigliatura dai
grandi riccioli, il saggio, avvolto nel leggero camice di laboratorio, s'appoggia
con una mano alla balaustra, mentre, con l'altra, accarezza la propria barba
abbondante e serica. Egli non medita, osserva. L'occhio è fìsso; lo sguardo
possiede una straordinaria acutezza. Tutto, nell'atteggiamento del Filosofo,
rivela una estrema emozione. La curvatura delle spalle, lo spostamento in
avanti della testa e del busto tradiscono, infatti, una grande sorpresa. In
verità, questa mano pietrificata sembra animarsi. È forse un'illusione? Sembra
di vederla tremare...
Che splendida
figura questa del vecchio maestro che scruta, interroga, curioso ed attento,
l'evoluzione della vita minerale, e poi, infine, abbagliato, contempla il
prodigio che solo la propria fede gli faceva intravedere!
E come
sembrano misere le moderne statue dei nostri scienziati, — che siano colate in
bronzo o scolpite nel marmo, — in confronto a questa raffigurazione venerabile,
dal realismo così potente nella sua semplicità!
II
Lo Stilobate
della facciata che si sviluppa e si estende sotto i tre portici, è un vero
tesoro per il decifratore di enigmi ermetici, tanto esso è ricco d'immagini
strane ed istruttive.
È qui che
troviamo il nome lapidario del soggetto
dei Saggi; qui assistiamo all'elaborazione del solvente segreto; qui,
infine, seguiremo passo per passo il lavoro dell'Elisir, dalla prima
calcinazione fino all'ultima cottura.
Ma, per
mantenere in questo studio un certo metodo, seguiremo sempre l'ordine di
successione delle figure, andando dall'esterno verso i battenti del portico,
come farebbe un fedele che entri nel santuario.
Sulle facce
laterali dei contrafforti che limitano il grande portale, troveremo,
all'altezza degli occhi, due piccoli bassorilievi incastrati ciascuno in
un'ogiva. Quello del pilastro sinistro ci presenta l'alchimista che scopre la Fontana misteriosa, quello che il
Trevisano descrive nella Parabola finale del suo libro sulla Philosophie naturelle des Métaux l
(l Vedi J. Mangin de Richebourg, Bibliothèque
des Philosophes Chimiques, Parigi 1741, t. II, trattato VII.).
L'artista ha
camminato a lungo, ha vagato per false vie e per dubbi sentieri; ma finalmente
la sua gioia esplode! Il ruscello di acqua
viva scorre ai suoi piedi; sgorga, gorgogliando, dalla vecchia quercia cava2 (2 «Nota questa
quercia», dice semplicemente Flamel nel Livre
des Figures hiéroglyphiques.). Il nostro Adepto ha colpito nel segno. E così,
dimenticandosi dell'arco e delle frecce con le quali, allo stesso modo di Cadmo,
ha trafìtto il drago, guarda ondeggiare la limpida sorgente la cui virtù
solvente e la cui essenza volatile gli sono confermate da un uccello
appollaiato sull'albero (tav. IV).
Ma qual è
quell'occulta Fontana? Qual è la
natura di questo potente solvente capace di penetrare tutti i metalli, — in
particolare l'oro, — e di compiere, con l'aiuto del corpo disciolto,
tutt'intera la Grande Opera? — Questi sono enigmi così profondi che hanno
respinto un numero considerevole di ricercatori; tutti o quasi si sono inutilmente
accaniti contro questo muro impenetrabile, elevato dai Filosofi a difesa della
loro cittadella.
La mitologia la chiama Libethra* (* Vedi: Noël, Dictionnaire
de la Fable, Paris, Le Normant, 1801) e ci racconta che era una sorgente di
Magnesia, e che nelle vicinanze c'era
un'altra sorgente chiamata La Roccia.
Ambedue scaturivano da una grossa roccia
la cui forma assomigliava ad un seno di donna; di modo che l'acqua sembrava colare da due mammelle come se fosse latte.
Ora, noi sappiamo che gli antichi autori chiamano la materia dell'Opera la mostra Magnesia e che il liquore
estratto da questa magnesia è chiamato Latte
della Vergine. Questa è un'indicazione. Abbastanza chiara e sufficientemente
espressiva è poi l'allegoria del miscuglio o della combinazione di quest'acqua
primitiva, derivata dal Caos dei
Saggi, con una seconda acqua di natura differente (sebbene sia dello stesso
genere). Da questa combinazione deriva una terza acqua che non bagna le mani e che i Filosofi hanno chiamato
talvolta Mercurio, talvolta Zolfo a seconda che considerassero la qualità di questa acqua o il suo aspetto fisico.
Nel trattato
dell’Azoto* (* Azoth o Moyen de fair l’Or
caché des Philosophes di Frate Basilio Valentino, Parigi, Pierre Moët,
1659, p. 51), attribuito al celebre monaco di Erfurt, Basilio Valentino, e che
sarebbe invece opera di Senior Zadith, si nota una xilografia che rappresenta
una ninfa o sirena incoronata che nuota in mare e che fa zampillare, dai suoi
seni rigonfi, due zampilli di latte che si mescolano con i flutti.
Gli autori
arabi chiamano questa Sorgente col
nome di Holmat; e ci insegnano anche
che le sue acque diedero l’immortalità al profeta Elia (parola greca, sole).
Essi pongono questa famosa sorgente nel Modhallam,
la cui radice significa Mare oscuro e
tenebroso, spiegazione che indica perfettamente la confusione elementare
che i Saggi attribuiscono al loro Caos
o materia primitiva.
Un dipinto,
che non è altro che la replica della favola appena citata, si trovava nella
piccola chiesa di Brixen (Tirolo). Questo strano quadro, descritto da Misson e
segnalato da Witkowski* (* G. J. Witkowski, L’art
profane à l’Eglise, Etranger, p. 63), sembra essere la versione religiosa
dello stesso tema chimico: «Gesù fa colare in un grande bacile il sangue che
sgorga dal suo fianco, ferito dalla lancia di Longino; la Vergine preme le sue
mammelle, e il latte che zampilla cade nello stesso recipiente. Ciò che
trabocca va in un secondo bacile e si perde in fondo ad un crepaccio infuocato
dove le anime del Purgatorio, maschi e femmine, a busto nudo, si precipitano a
raccogliere questo liquore prezioso che li consola e li rinfresca.»
Sotto questo
vecchio dipinto si legge un’iscrizione in latino di sagrestia:
Dum fluit e Christi
benedicto Vulnere sanguis,
Et dum Virgineum lac pia
Virgo premit,
Lac fuit et sanguis,
sanguis conjungitur et lac,
Et sit Fons Vitae, Fons et Origo boni*
(* «Mentre il
sangue cola dalla ferita benedetta del Cristo e la Vergine preme il suo
virgineo seno, il latte ed il sangue zampillano e si mescolano, diventano
Fontana di Vita e Sorgente di Bene)
Riporteremo
qui due descrizioni, che riguardano la Fontana
misteriosa e i suoi componenti; tali descrizioni accompagnano le Figure simboliche d’Abramo l’Ebreo,
libro che pare, appartenne a Nicolò* (* Recueil
de Sept Figures peintes. Biblioteca dell’Arsenal, n. 3047 (153 SAF)), e che
questo Adepto teneva esposto nel suo ufficio di scrivano. Ecco i testi
originali di due leggende esplicative:
«Terza figura — È dipinto e rappresentato un
giardino cinto di siepi e nel quale vi sono parecchie aiuole. Nel mezzo c'è un vecchio tronco cavo di quercia, ai piedi
del quale, su di un lato, c'è un roseto dalle foglie d'oro, con rose
bianche e rosse, che circonda questa quercia fino ad una certa altezza,
prossima ai rami. E ai piedi di questo tronco
cavo di quercia gorgoglia una sorgente, limpida come argento, che si perde
sottoterra; tra i molti che la cercano, ci sono quattro ciechi che zappano ed
altri quattro che la cercano senza scavare, e pur essendo la fontana davanti ad essi, non riescono a
trovarla, tranne uno che la soppesa tra le mani.»
È proprio
quest'ultimo personaggio a fare da soggetto nel motivo scolpito a Notre-Dame de
Paris. La preparazione del solvente di cui stiamo parlando è riportata nella
spiegazione che accompagna la immagine seguente:
«Quarta
figura — C'è dipinto un campo, nel quale sta un re incoronato, vestito di rosso, alla moda Ebrea, e che tiene una
spada sguainata; due soldati che uccidono i figli di due madri, sedute per terra, che piangono i loro bambini; e due
altri soldati che gettano il sangue in un grande tino pieno di quel sangue, in
esso il sole e la luna, discendendo
dal cielo o dalle nubi, vengono a
bagnarsi. Ci sono sei soldati armati con armatura bianca: ed il re è il
settimo, sette innocenti morti, e due madri, una vestita di blu che piange, asciugandosi le lacrime con un
fazzoletto, l'altra, anch'essa piangente, vestita
di rosso.»
Segnaliamo
ancora una figura del libro del Trismosin* (*Vedi Trismosin, La Toyson d'Or. Parigi, Ch. Sevestre,
1612, p. 52.), che è quasi eguale alla terza figura d'Abramo. Si vede una
quercia, dalla cui base, cinta da una corona d'oro, nasce un ruscello nascosto
che scorre nella campagna. Tra le fronde dell'albero, svolazzano degli uccelli
bianchi, tranne un corvo, che sembra addormentato, mentre un uomo, vestito
poveramente, salito su di una scala, sta per prenderlo. In primo piano due
sofisti, vestiti con ricercatezza di stoffe sontuose, discutono ed argomentano
su questo punto della scienza, senza notare la quercia posta dietro di loro, ne
vedere la Fontana che scorre ai loro piedi...
Aggiungiamo,
infine, che la tradizione esoterica della Fontana
di Vita o Fontana di Giovinezza
si ritrova materializzata nei Pozzi sacri
posseduti, nel medioevo, dalla maggior parte delle chiese gotiche. L'acqua che
vi si attingeva era considerata di grandi virtù curative e la si usava nella cura
di alcune malattie. Abbon, nel suo poema che tratta dell'assedio sostenuto da
Parigi contro i Normanni, ci trasmette intere pagine che testimoniano le
meravigliose proprietà dell'acqua del pozzo di Saint Germain-des-Prés, scavato
in fondo al santuario della celebre abbazia. La stessa fama godeva l'acqua del pozzo
di Saint-Marcel, a Parigi, scavato nella chiesa stessa, vicino alla pietra
tombale del venerabile vescovo; questa acqua, secondo Grégoire de Tours, si
rivelò un efficacissimo specifico per parecchie malattie. Ancor oggi esiste,
all'interno della basilica gotica di Notre-Dame de Lépine (Marne), un pozzo
miracoloso, chiamato Pozzo della Santa Vergine, ed un pozzo analogo sta in
mezzo al coro di Notre-Dame de Limoux (Aude); la sua acqua, si dice, guarisce
tutte le malattie; esso reca quest'iscrizione:
Omnis
qui bibit hanc aquam, si fidem addit, salvus erit.
Chiunque beva
di quest'acqua, se vi aggiunge la fede, starà bene.
Presto avremo
l'occasione di ritornare su quest'acqua
pontica, alla quale i Filosofi hanno dato un gran numero d'epiteti più o
meno suggestivi.
Davanti alla
decorazione scolpita che riporta le proprietà e la natura dell'agente segreto,
sul contrafforte opposto potremo assistere alla cottura del compost filosofale. Questa volta l'artista
veglia il prodotto del suo lavoro. Vestita l'armatura, le gambe protette e lo
scudo al braccio, il nostro cavaliere è piazzato sulla terrazza di una
fortezza, a giudicare dai merli che lo circondano. Con un movimento difensivo,
minaccia col giavellotto una forma imprecisa (qualche raggio? un globo di
fiamma?), che, purtroppo, è impossibile identificare tanto il rilievo è ormai
mutilato. Dietro il combattente, c'è un piccolo edificio bizzarro, formato da
un basamento centinato, merlato, e sorretto da quattro pilastri, ricoperto da
una volta segmentata a chiave sferica. Sotto la volta del basamento, una massa
aculeiforme e fiammeggiante sta a precisarne la destinazione. Questo strano torrione,
castello in miniatura, è lo strumento della Grande Opera, l’Athanor, l'occulto forno dalle due
fiamme, — una potenziale e l'altra virtuale, — che tutti i discepoli conoscono
e che numerose descrizioni e incisioni hanno contribuito a volgarizzare (tav.
V).
Immediatamente
al di sotto di queste figure sono riprodotti i due soggetti che sembrano
esserne il complemento. Ma, poiché l'esoterismo in esse contenuto si nasconde
sotto l'aspetto sacro e le scene bibliche, eviteremo di citarli, per non
rischiare il demerito d'una interpretazione arbitraria. Alcuni grandi sapienti,
tra gli antichi maestri, non hanno avuto timore di spiegare alchemicamente le
parabole delle sante Scritture, tanto il loro significato è suscettibile di
diverse interpretazioni. La Filosofia ermetica invoca spesso la testimonianza della
Genesi per analogia al primo lavoro dell'Opera; una gran quantità d'allegorie
del vecchio e del nuovo Testamento assumono un imprevisto rilievo a contatto
con l'alchimia. Questi precedenti potrebbero servirci sia ad incoraggiarci sia
a servirci di scusa; ma noi preferiamo limitarci esclusivamente a quei motivi
il cui carattere profano è indiscutibile, lasciando agli investigatori benevoli
la facoltà d'eseritare sugli altri bassorilievi la propria sagacia.
III
Gli argomenti
ermetici dello stilobate si sviluppano su due file sovrapposte, a destra e a
sinistra del portico. La fila inferiore è composta di dodici medaglioni e
quella superiore di dodici figure. Quest'ultime rappresentano dei personaggi
seduti su dei basamenti ornati di scanalature dal profilo ora concavo, ora angoloso,
e posti tra gli intercolumni delle arcate trilobate. Tutti questi soggetti scolpiti
hanno dei dischi ornati con veri emblemi riferentisi al lavoro alchemico.
Se iniziamo
dalla fila superiore, dal lato sinistro, il primo bassorilievo ci mostrerà l'immagine
del corvo, simbolo del colore nero. La
donna che lo tiene sulle sue ginocchia simboleggia la Putrefazione (tav. VI).
Ci sia
permesso di fermarci un attimo sul geroglifico del Corvo, perché esso nasconde
un punto importante della nostra scienza. Esso rappresenta, infatti, nella
cottura del Rebis filosofale, il color nero, primo segno visibile della
decomposizione, conseguenza della perfetta miscela delle materie contenute
nell'Uovo. Secondo i Filosofi, è il
sicuro segno del successo futuro, la prova evidente dell'esatta preparazione
del compost. In un certo modo, il Corvo
è il sigillo canonico dell'Opera, come la stella è la firma del soggetto
iniziale.
Ma questa
nerezza, sperata dall'artista, da lui attesa con ansietà, la cui apparizione
colma i suoi voti e lo riempie di gioia, non si manifesta solo durante la
cottura. L'uccello nero appare varie volte, e questa frequenza permette agli
autori di seminare la confusione nell'ordine delle operazioni.
Secondo Le
Breton* (*Le Breton, Clefs de la
Philosophie Spagyrique, Parigi, Jombert, 1722, p. 282.), «ci sono quattro putrefazioni nell'Opera filosofica.
La prima nella prima separazione; la seconda nella prima congiunzione; la terza
nella seconda congiunzione, fatta dall'acqua pesante col suo sale; la quarta,
infine, nella fissazione dello zolfo. In ciascuna di queste putrefazioni arriva
il colore nero.»
I nostri
vecchi maestri hanno potuto facilmente coprire l'arcano con uno spesso velo,
mescolando le qualità specifiche delle diverse sostanze, durante le quattro
operazioni che mostrano il color nero. E quindi diventa assai laborioso
separare e distinguere nettamente ciò che è specifico di ciascuna di esse.
Ecco alcune
citazioni che potranno illuminare l'investigatore e permettergli di riconoscere
la strada in questo tenebroso labirinto:
Il Cavaliere
Sconosciuto* (*La Nature à découvert,
dello Chevalier Inconnu. Aix, 1669.) scrive: «Nella seconda operazione, l'artista
prudente fissa l'anima generale del mondo nell'oro comune e rende pura l'anima
terrestre e immobile. In quest'operazione, la putrefazione che essi chiamano Testa di Corvo, è molto lunga. Essa è seguita,
poi, da una terza moltiplicazione con l'aggiunta di materia filosofica o anima
generale del mondo.»
In queste
righe sono chiaramente indicate due operazioni successive, la prima delle quali
termina e la seconda comincia dopo l'apparizione della colorazione nera, cosa
che non avviene con la cottura.
Un prezioso
manoscritto anonimo del XVIII secolo* (*La
Clef du Cabinet hermétique. Manoscritto del XVIII secolo di Anonimo, s.l.n.d.),
cosi ci parla della prima putrefazione, che non va confusa con le altre:
«Se la
materia non si è putrefatta e mortificata, è detto in questa opera, non potrete
estrarre i nostri principii ed i nostri elementi; per aiutarvi in questa
difficoltà, vi indicherò i segni necessari per riconoscerla. Anche alcuni
Filosofi l'hanno notata. Morien dice: bisogna notare una certa acidità ed essa deve avere un certo odore di sepolcro. Filalete dice ch'essa deve apparire come se ci fossero
degli occhi di pesce, cioè delle
piccole bollicine sulla superfìcie, sì da sembrare che stia schiumando; perché
questo è un segno che la materia fermenta e che sta bollendo. Questa
fermentazione è molto lunga e bisogna avere molta pazienza, perché essa si compie
per mezzo del nostro fuoco segreto
che è il solo agente che può aprire, sublimare e putrefare.»
Ma, tra tutte
queste descrizioni, quelle che si riferiscono al Corvo (o color nero) della cottura sono molto più numerose e le più
ricercate, perché esse racchiudono tutte le caratteristiche delle altre operazioni.
Bernardo il
Trevisano* (* Bernardo il Trevisano, La
Parole délaissée, Paris, Jean Sarà, 1618, p. 39.) cosi si esprime:
«Notate
dunque che, quando il nostro compost comincia ad essere inumidito con la nostra
acqua permanente allora comincia a cambiare divenendo in tutto simile alla pece
fusa, ed è tutto nero, come il carbone. A questo punto il nostro compost è
chiamato: pece nera, sale bruciato,
piombo fuso, ottone sporco, Magnesia e Merlo di Jean. Perché a quel punto è
venuta una nube nera, volando nella
parte intermedia del vaso, e con bella e delicata maniera, si è elevata alla
superficie del vaso; mentre sul fondo di questo c'è la materia sciolta come
pece, che resta totalmente disciolta. Di questa nube parla Jacques del paese di
S. Saturimi, dicendo: O nube benedetta che spicchi il volo dal nostro vaso! È
questa l'eclissi di sole di cui parla Raimondo* (*L'autore, con questo nome,
intende parlare di Raimondo Luilo (Doctor
Illuminatus). E quando questa massa si è cosi annerita, si dice che è
morta, e che è priva di forma... Quando si è manifestata l'umidità, la massa si
presenta colorata come un argento vivo nero e fetido, mentre prima essa era
asciutta, bianca, dall'odore piacevole, ardente, e depurata dallo zolfo con la
prima operazione; invece, ora deve essere depurata con questa seconda
operazione. Per questo, il corpo viene privato della sua anima, del suo
splendore e della meravigliosa lucentezza che aveva prima, ed ora è nero e brutto... Questa
massa nera o annerita, è la chiave* (*Si dà il nome di chiave ad ogni dissoluzione alchemica
radicale (cioè irriducibile), talvolta questo termine viene esteso ai mestrui
o solventi capaci di compierla.), l'inizio ed il segnale che si è
perfettamente trovato il modo di operare del secondo regime della nostra
preziosa pietra. Perché, dice Ermete, visto il colore nero, state pure certi
che avete seguito il sentiero giusto e percorso un buon tratto di strada.»
Batsdorff, autore presunto d'un'opera classica* (*Le Filet d'Ariadne. Parigi, d'Houry, 1695, p.
99.), che altri attribuiscono invece a Gaston de Claves, insegna che
la putrefazione si manifesta quando appare il color nero e che questo è il segno d'un lavoro
corretto e conforme alla natura. Egli aggiunge: «I Filosofi gli hanno dato
diversi nomi e l'hanno chiamato: Occidente, Tenebre, Eclissi, Lebbra, Testa
di Corvo, Morte, Mortificazione del Mercurio... Ne risulta, dunque, che
con questa putrefazione si separa il puro dall'impuro. Ora, i segni d'una buona
e vera putrefazione sono una nerezza assai nera o molto profonda, un
odore fetido, cattivo e nauseabondo, chiamato dai Filosofi toxicum et
venenum, questo odore non è sentito dall'odorato, ma solo dall'intelletto.»
Chiudiamo qui le citazioni, che potremmo moltiplicare a iosa senza
che lo studente ne ricavi gran profitto, e torniamo alle figure ermetiche di
Notre-Dame.
Il secondo bassorilievo ci mostra l'effigie del Mercurio filosofico:
un serpente che si avvinghia intorno ad una verga d'oro. Abramo l'Ebreo,
conosciuto anche col nome di Eleazar, si servì di questo simbolo nel libro che
capitò nelle mani di Flamel, — cosa che non ha niente di sorprendente, perché
incontriamo questo simbolo in tutto il periodo medioevale (tav. VII).
Il serpente
indica la natura aggressiva e solvente del Mercurio, che assorbe avidamente lo
zolfo metallico e lo trattiene così fortemente che la coesione non può più
essere vinta. Si tratta del «verme velenoso che contamina tutto col suo veleno
», di cui parla l'Ancienne Guerre des Chevaliers* (*Pubblicata, con l'aggiunta d'un
commento di Limojon de Saint-Didier, nel Triomphe hermétique o la Pierre
philosophale victorieuse. Amsterdam, Weitsten, 1699, e Desbordes, 1710. Quest'opera
rara è stata ristampata, da Atlantis, compreso
il frontespizio simbolico e la sua spiegazione, che spesso mancavano negli
esemplari antichi.). Questo rettile indica il Mercurio
al suo primo stadio, e la verga
d'oro lo zolfo corporale che gli si aggiunge. La soluzione di zolfo o, in altre
parole, l'assorbimento di esso da parte del mercurio, ha fornito il pretesto
per i più svariati emblemi; ma il corpo risultante, omogeneo e perfettamente
preparato, conserva il nome di Mercurio
filosofico e l'immagine del caduceo. È la materia o amalgama di primo grado, uovo
vetriolato che ha bisogno solo di una cottura graduale per trasformarsi
prima in zolfo rosso, poi in Elisir, poi, nel terzo stadio, in Medicina universale. «Nella nostra
Opera, affermano i Filosofi, basta il solo Mercurio.»
Più in là c'è
una donna dai capelli lunghi che si agitano come fiamme. Ella impersona la Calcinazione, e stringe al petto il
disco della Salamandra «che vive nel
fuoco e si nutre del fuoco» (tav. VIII). Questa mitica lucertola indica
nient'altro che il sale centrale, incombustibile
e fisso, che conserva la propria natura anche nelle ceneri dei metalli
calcinati e che gli Antichi hanno chiamato Sperma
metallico. Nella violenza dell'azione del fuoco, le parti combustibili
vengono distrutte; resistono solo le parti pure, inalterabili e, sebbene siano
molto stabili, possono essere estratte con la lisciviazione.
Per lo meno
questo è il termine spagirico della
calcinazione, similitudine di cui si servono spesso gli Autori per
esemplificare meglio l'idea generale che si deve avere del lavoro ermetico.
Tuttavia i nostri maestri dell'Arte hanno avuto cura d'attirare l'attenzione del
lettore sulla differenza fondamentale che esiste tra la calcinazione volgare,
come viene realizzata nel laboratorio chimico, e quella che l'Iniziato fa nel
gabinetto filosofico. Essa non viene fatta per mezzo del fuoco volgare, non ha
assolutamente bisogno dell'aiuto d'un riverbero, ma richiede l'aiuto d'un agente occulto, d'un fuoco segreto che, per dare un'idea
della sua forma, ha più l'aspetto d'un'acqua che d'una fiamma. Questo fuoco, questa acqua ardente è la scintilla vitale comunicata dal Creatore alla
materia inerte; è lo spirito racchiuso
nelle cose, il raggio igneo, imperituro,
chiuso nel fondo della sostanza oscura, informe e frigida. Stiamo giungendo qui
nel più alto segreto dell'Opera; e saremmo ben felici di tagliare questo nodo
di Gordio in favore degli aspiranti alla nostra Scienza, — al ricordo, ahimè! di
noi stessi che rimanemmo fermi, a causa di questa difficoltà, per più di
vent'anni, — se ci fosse permesso di profanare un mistero la cui rivelazione
dipende dal Padre delle Illuminazioni.
Con nostro sommo dispiacere non possiamo far altro che segnalare l'ostacolo e
consigliare, con i più eminenti filosofi, l'attenta lettura di Artephius* (* Le secret Livre d'Artephius, nei Trois Traitez de la Philosophie naturelle,
Parigi. Marette, 1612.), di Pontanus* (* Pontanus, De Lapide Philosophico. Francofurti, 1614.), e della piccola opera
intitolata: Epistola de Igne
Philosophorum* (* Manoscritto della Biblioteca Nazionale, 19969.) Vi si
troveranno preziose indicazioni sulla natura e le caratteristiche di questo fuoco acqueo o di questa acqua ignea, indicazioni che potranno
essere completate con i due testi seguenti.
L'autore
anonimo dei Precetti del Padre Abramo
dice: «Questa acqua primitiva e
celeste dev'essere estratta dal corpo nel quale essa si trova; secondo noi, è
chiamata con un nome di sette lettere, e rappresenta lo sperma primigenio di
tutti gli esseri, non specificato e non determinato nella casa dell'Ariete per
generare suo figlio. A questa acqua i Filosofi hanno dato tanti nomi, è il
solvente universale, la vita e la salute di ogni cosa. I Filosofi dicono che in
quest'acqua si bagnano il sole e la luna, che anch'essi si risolvono in acqua,
loro origine prima. È per questo fatto che si dice ch'essi muoiono, ma i loro
spiriti sono portati sulle acque di questo mare nel quale sono sepolti...
Sebbene si dica, figlio mio, che ci sono altri metodi per risolvere questi
corpi nella loro materia prima, attieniti a quello che io ti spiego, perché lo
conosco per esperienza e nei modi in cui ci è stato tramandato dagli Antichi.»
Anche Limojon
de Saint-Didier scrive: «... Il fuoco
segreto dei Saggi è un fuoco che l'artista prepara secondo l'Arte, o almeno
che egli può far preparare da coloro che posseggono una perfetta conoscenza
della chimica. Questo fuoco non è caldo sul momento, ma è uno spirito igneo se introdotto in una cosa
della stessa natura della Pietra, e, eccitato un poco dal fuoco esteriore, la
calcina, la discioglie, la sublima, e la risolve
in acqua asciutta, come dice il Cosmopolita.»
Del resto,
presto scopriremo altre figure che riguardano sia la fabbricazione, sia le
qualità di questo fuoco segreto rinchiuso
in un'acqua che costituisce, poi, il nostro solvente universale. La materia
necessaria alla sua preparazione è proprio l'argomento del quarto motivo: un
uomo mostra l'immagine dell’Ariete e
tiene, con la mano destra, un oggetto, che purtroppo, oggi non è possibile
individuare (tav. IX). È forse un minerale, un frammento di qualche attributo, un
utensile oppure anche un pezzo di stoffa? Non lo sappiamo. Il tempo ed il
vandalismo sono passati di qui. Eppure l'Ariete
resta e l'uomo, geroglifico del principio metallico maschile, ce ne mostra la figura.
Ciò ci aiuta a capire queste parole di Pernety: «Gli Adepti dichiarano
d'estrarre il loro acciaio dal Ventre
dell’Ariete e chiamano calamità anche
questo acciaio.»
Viene poi l'Evoluzione: essa ci mostra l'orifiamma
dai tre pennoni, triplicità dei Colori
dell'Opera, che si trovano descritti in tutte le opere classiche (tav. X).
Questi tre
colori si succedono secondo l'ordine invariabile che va dal nero al rosso passando per il bianco.
Ma, poiché la natura, secondo il vecchio proverbio, — Natura non facit saltus, — non fa nulla bruscamente, ci sono molti
altri colori intermediari che appaiono tra questi tre principali. Ma l'artista
non li considera perché sono superficiali e passeggeri. Essi recano solo il
messaggio della continuità e della progressione delle mutazioni interne. Per
quel che riguarda i colori essenziali, essi durano più a lungo che non le altre
sfumature transitorie e intaccano più profondamente la materia, segnando un
cambiamento di stato della sua costituzione chimica. Non si tratta quindi, di
tinte evanescenti, più o meno brillanti, che appaiono sulla superficie del
bagno, ma sono proprio colorazioni della massa che si rivelano anche in
superficie ed assorbono tutte le altre. Crediamo che sia stato un bene, l'aver
precisato un punto cosi importante.
Queste fasi
colorate, specifiche della cottura nella pratica della Grande Opera, hanno
sempre servito come prototipo simbolico; a ciascuna di esse fu attribuito un
significato preciso, e spesso assai esteso, per esprimere sotto il loro velo
alcune verità concrete. Per questo è esistita, in ogni tempo, una lingua di colori, unita intimamente alla
religione, come ci dice Portal* (*Frédéric Portal, Des Couleurs Svmboliques.
Parigi, Treuttel et Würtz, 1857, p.2.), e che nel medioevo riappare sulle
vetrate delle cattedrali gotiche.
Il color nero fu attribuito a Saturno, che,
in spagiria, divenne il geroglifico del piombo,
in astrologia un pianeta malefico, nella scienza ermetica il drago nero o Piombo dei Filosofi, in magia la
Gallina nera, ecc. Nei templi d'Egitto, quando il candidato era sul punto di
superare le prove d'iniziazione, un sacerdote gli si avvicinava e gli suggeriva
all'orecchio questa frase misteriosa: «Ricordati che Osiride è un dio nero!» È il colore simbolico delle
Tenebre e delle Ombre cimmerie,
quelle di Satana, al quale si offrivano delle rose nere, ed è anche il colore del Caos primitivo, nel quale gli spermi di tutte le cose sono confusi
e mescolati; è la sabbia della
scienza araldica e l'emblema dell'elemento terra,
della notte e della morte.
Come nella
Genesi il giorno succede alla notte, la luce succede all'oscurità. Essa ha come
segno distintivo il color bianco. I
Saggi ci assicurano che, quando la materia è giunta a questo stadio, è ormai
libera da ogni impurità, perfettamente lavata ed esattamente purificata. Essa
si presenta allora sotto l'aspetto di granuli solidi o corpuscoli brillanti,
dai riflessi adamantini e d'una splendente bianchezza. Il bianco è stato anche
applicato alla purezza, alla semplicità, all'innocenza. Il color bianco è quello
degli Iniziati, perché l'uomo che abbandona le tenebre per seguire la luce,
passa dallo stadio profondo a quello d'Iniziato,
di puro. Spiritualmente si è
rinnovato. Pierre Dujois scrive: «II termine di Bianco, è stato scelto per delle ragioni fìlosofìche assai
profonde. Il color bianco, — come attesta la maggioranza delle lingue, — ha
sempre indicato la nobiltà, il candore,
la purezza. Secondo il celebre Dizionario-Manuale
ebreo e caldeo di Genesius, hur, heur,
significa essere bianco; hurim, heurim
indica i nobili, i bianchi, i puri. Questa trascrizione dall'ebreo, più o meno variabile (hur, heur, hurim, heurim) ci conduce alla
parola heureux* (*Felice N.d.T.). I bienheureux* (*Beati N.d.T.), — quelli
che sono stati rigenerati e lavati col sangue dell'Agnello, — sono sempre
rappresentati con degli abiti bianchi. Nessuno ignora che beato è l'equivalente, il sinonimo di Iniziato, di nobile, di puro. E gli Iniziati vestivano di bianco.
I nobili si vestivano allo stesso modo. Anche i Mani, in Egitto, erano vestiti
di bianco. Ftah, il Rigeneratore, era avvolto di bianco, per indicare la nuova nascita
dei Puri o dei Bianchi. I Catari, setta alla quale appartenevano i Bianchi di Firenze, erano i Puri (dal greco …..). In latino, in
tedesco, in inglese, le parole Weiss,
White, significano bianco, felice,
spirituale, saggio. Invece, in ebreo, schher
indica un colore nero di transizione; cioè il profano che cerca la iniziazione. Portai dice che l'Osiride nero,
che appare all'inizio del Rituale funebre, rappresenta questo stato d'animo che
passa dalla notte al giorno, alla morte alla vita.»
Quanto al
color rosso, simbolo del fuoco,
indica l'esaltazione, il predominio dello spirito sulla materia, la sovranità, la
forza e l'apostolato. Ottenuta sotto forma di cristallo o di polvere rossa, volatile e fusibile, la pietra
filosofale diventa penetrante e adatta a guarire i lebbrosi, cioè a trasmutare in oro i metalli volgari che a causa
della loro ossidabilità sono inferiori, imperfetti, « malati o infermi».
Paracelso,
nel Livres des Images, cosi parla
delle successive colorazioni dell'Opera: «Sebbene esistano alcuni colori
elementari — perché l'azzurro è più particolarmente proprio della terra, il
verde dell'acqua, il giallo dell'aria e il rosso del fuoco, — tuttavia, i
colori bianco e nero si riferiscono direttamente all'arte spagirica, nella
quale ritroviamo anche i quattro colori primitivi, cioè il nero, il bianco, il giallo ed il rosso. Il nero è la radice e l'origine
degli altri colori; perché ogni materia nera può essere riverberata* (*Cioè
scaldata in un forno a riverbero N.d.T.) per il tempo necessario, in modo che i
tre altri colori appaiono successivamente e ciascuno a suo tempo. Al nero
succede il bianco, il giallo al bianco ed il rosso al giallo. Ora, ogni materia
giunta al quarto colore per mezzo della riverberazione è la tintura delle cose del suo tipo, cioè
della propria natura.»
Per dare
un'idea dell'estensione assunta dalla simbologia dei colori, — e specialmente
dai tre colori maggiori dell'Opera, — notiamo che la Vergine è sempre rappresentata drappeggiata in blu (corrispondente al nero, come spiegheremo in seguito), Dio in bianco e il Cristo in rosso. Sono questi i colori nazionali
della bandiera francese, che, del resto, fu composta dal massone écribouille* (* Intraducibile in
italiano N.d.T.) Louis David. In esso il blu
scuro o il nero rappresenta la
borghesia; il bianco rappresenta il popolo, gli uomini comuni e i contadini, ed il rosso è riservato all’autorità o alla sovranità. In Caldea, le
Ziggurat, che normalmente erano delle torri a tre piani, ed alla cui categoria appartiene
anche la famosa Torre di Babele,
erano rivestite di tre colori: nero,
bianco e rosso-porpora.
Fino ad ora
abbiamo parlato dei colori da un punto di vista soltanto teorico, e, come i
Maestri hanno fatto prima di noi, per obbedire alla dottrina filosofica e
all'espressione tradizionale. Ora sarebbe forse conveniente scrivere, in favore
dei Figli della Scienza, qualcosa che riguardi la pratica e non la speculazione,
per scoprire, così, che cosa differenzia la similitudine dalla realtà.
Pochi
Filosofi hanno osato avventurarsi su questo terreno infido. Etteilla* (* Vedi
il Denier du Pauvre o la Perfection des métaux. Parigi,circa
1785, p. 58.) ci ha segnalato un quadro* (* Questo quadro sarebbe stato dipinto
verso la metà del XVII secolo.) dell'argomento ermetico che egli avrebbe
posseduto, e ci ha conservato alcune leggende poste sotto di esso; tra di esse,
si legge, non senza sorpresa, questo consiglio degno d'essere seguito: Non vi riferite troppo al colore. — Che
c'è da aggiungere? Forse i vecchi autori hanno deliberatamente ingannato i loro
lettori? E quale indicazione i discepoli d'Ermes dovranno sostituire ai colori
che mancano per riconoscere e seguire la dritta via?
Fratelli, cercate
senza scoraggiarvi, perché qui come in altri punti oscuri dovete compiere un
grande sforzo. Voi avete certo letto, in parecchi passi dei vostri libri che i
Filosofi parlano chiaramente solo quando vogliono allontanare i profani dalla
loro Tavola rotonda. Le descrizioni
fornite dei loro regimi, ai quali
attribuiscono delle colorazioni emblematiche, sono d'una perfetta chiarezza.
Dovete dunque concludere che queste osservazioni, descritte così bene, sono false
e chimeriche. I vostri libri, come quello dell'Apocalisse, sono chiusi da
sigilli ermetici. Dovete spezzarli uno per uno. Il compito è faticoso, lo
riconosciamo, ma vincendo senza pericolo si trionfa senza gloria.
Imparate,
dunque, non in che cosa un colore si distingue da un altro, ma piuttosto con
che cosa si distingue un regime da un
altro. E, per prima cosa, che cos'è un regime?
— Semplicemente il modo di far vegetare,
di mantenere e d'accrescere la vita che la vostra pietra ha ricevuto alla sua
nascita. Si tratta, quindi, d'un modus
operandi, che non è forzatamente tradotto in una successione di colori
diversi. Filalete scrive: «Chi conoscerà il Regime sarà onorato dai principi e
dai grandi della terra.» Lo stesso autore aggiunge: «Noi non vi nascondiamo
nient'altro che il Regime.» Ora, per
non attirare sul nostro capo la maledizione dei Filosofi, rivelando ciò che
essi hanno creduto di dover lasciare nell'ombra, ci accontenteremo d'avvertirvi
che il Regime della pietra, cioè la
sua cottura, ne contiene parecchie altre, cioè parecchie altre
ripetizioni dello stesso modo d'operare. Riflettete, ricorrete all'analogia, e,
soprattutto, non vi allontanate mai dalla semplicità naturale. Pensate che dovete
mangiare tutti i giorni per conservare la vostra vitalità; che vi è
indispensabile il riposo perché esso fornisce, da una parte, la digestione e
l'assimilazione dell'alimento, e, dall'altra, il rinnovamento continuo delle
cellule consunte dal lavoro quotidiano. E in più, non dovete forse espellere
frequentemente alcuni prodotti eterogenei, scarti o residui non assimilabili?
Allo stesso modo, la vostra pietra ha bisogno di nutrimento per
aumentare la propria potenza e questo nutrimento deve essere graduale, ed anche
variato ad un certo momento. Date prima il latte; la dieta a base di carne,
più sostanziosa, verrà in seguito. E non dimenticate, dopo ogni digestione di
separare gli escrementi, perché la vostra pietra potrebbe esserne
avvelenata... Seguite, quindi, la natura ed obbeditele il più fedelmente
possibile. Quando avrete acquistato la conoscenza perfetta del Regime,
capirete in che modo conviene effettuare la cottura. Capirete meglio, così,
l'apostrofe che Tollius* (*J. lollius. Le Chemin du del Chymique.
Trad, del Manuductio ad Coelum Chemicum. Amstelaedami, Janss.
Waesbergios, 168) rivolge ai soffiatori, schiavi della lettera: «Andate, e ritiratevi
adesso, voi che cercate con una diligenza infinita i vostri diversi colori
nelle vostre bocce di vetro. Mi avete stancato con il vostro nero di corvo; siete
altrettanto pazzi di quell'uomo dell'antichità che applaudiva, a teatro, per
abitudine, anche s'era solo, perché s'immaginava d'aver sempre davanti agli
occhi qualche nuovo spettacolo. Lo stesso fate anche voi, quando piangendo
dalla gioia v'immaginate di vedere nelle vostre bocce di vetro la vostra bianca
colomba, la vostra aquila gialla ed il vostro fagiano rosso.
Andate, vi ripeto, allontanatevi da me, se cercate la pietra filosofale in una
cosa fissa; perché essa non penetrerà i corpi metallici più di quanto non farebbe
il corpo d'un uomo con le più solide mura...
«Ecco ciò che
avevo da dire dei colori, perché abbandoniate i vostri inutili lavori in
avvenire; aggiungerò a questo qualcosa concernente l'odore.
«La Terra è
nera, l'Acqua è bianca; l'aria più si avvicina al Sole e più ingiallisce;
l'etere è completamente rosso. La morte, come
diciamo tutti, è nera, la vita è piena di luce; più la luce è pura e più essa s'avvicina alla natura angelica e gli angeli sono puri spiriti di fuoco. Ora, l'odore d'un morto o d'un cadavere non è forse molesto e sgradevole all'odorato? Cosi l'odore fetido, di cui parlano i Filosofi, indica la fissazione; al contrario invece l'odore gradevole indica la volatilità, perché essa s'avvicina alla vita ed al calore.»
diciamo tutti, è nera, la vita è piena di luce; più la luce è pura e più essa s'avvicina alla natura angelica e gli angeli sono puri spiriti di fuoco. Ora, l'odore d'un morto o d'un cadavere non è forse molesto e sgradevole all'odorato? Cosi l'odore fetido, di cui parlano i Filosofi, indica la fissazione; al contrario invece l'odore gradevole indica la volatilità, perché essa s'avvicina alla vita ed al calore.»
Tornando al
basamento di Notre-Dame, troveremo al sesto posto la Filosofia, il cui disco reca il segno d'una croce. Questo è il simbolo
dell'elemento quaternario e la manifestazione dei due principii metallici, sole e luna, — quest'ultima manca, tolta di mezzo a colpi di martello, — o
zolfo e mercurio, genitori della pietra, secondo Ermes (tav. XI).
IV
I motivi che ornano il lato destro sono di
consultazione più difficile; anneriti e consunti, devono il loro deterioramento
all'orientamento di questo lato del portico. Spazzati dai venti occidentali, sette
secoli di raffiche li hanno sbriciolati fino al punto da ridurre alcuni di essi
allo stato di contorni spugnosi e imprecisi.
Sul settimo
bassorilievo di questa serie, — il primo a destra, — possiamo notare una
sezione longitudinale dell'Athanor e la struttura interna destinata a sostenere
l'uovo fìlosofico; nella mano destra il personaggio tiene una pietra (tav.
XII).
Nel tondo
seguente si vede scolpito un grifone. Il mostro mitologico, la cui testa ed il
cui petto sono d'aquila e per il
resto del corpo è un leone, inizia lo studioso alle qualità contrarie che
necessariamente devono essere congiunte nella materia filosofale (tav. XIII).
In quest'immagine troviamo il geroglifico della prima congiunzione, che avviene soltanto poco per volta a mano a
mano che procede questo lavoro faticoso e fastidioso che i Filosofi hanno
chiamato: aquile. L'intera serie
d'operazioni termina con l'unione intima dello zolfo e del mercurio e si chiama
anche Sublimazione. Mediante la
ripetizione delle Aquile o Sublimazioni filosofiche il mercurio
esaltato si spoglia delle sue parti grossolane e terrestri, della propria
umidità superflua ed acquista una parte del corpo fisso, ch'egli discioglie,
assorbe ed assimila. Far volare l'aquila,
secondo l'espressione ermetica, significa far
uscire la luce dalla tomba e portarla
alla superficie, cosa, questa, caratteristica di ogni vera sublimazione. È quello che c'insegnala favola di Teseo ed
Arianna. In questo caso Teseo (parola greca), luce organizzata, manifestata, che si separa da Arianna, il ragno che è al centro della sua tela, la pietra, il guscio vuoto,
il bozzolo, la larva della farfalla (Psiche).» Sappi, fratello mio, scrive
Filalete* (*Lenglet-Dufresnoy, Histoire
de la Philosophie Hermétique, - L'Entrée
au Palais Ferme du Roy, t. II, p. 35. Parigi, Coustelier, 1742.), che
l'esatta preparazione delle Aquile
volanti è il primo stadio della perfezione e per apprenderlo c'è bisogno
d'un'intelligenza industriosa ed abile... Per arrivarci noi abbiamo sudato e
lavorato molto, abbiamo persino passato delle notti senza dormire. Così tu, che
sei soltanto all'inizio, sii convinto che non riuscirai nella prima operazione
senza un gran lavoro...
«Comprendi dunque, fratello mio, ciò che
dicono i Saggi, quando sottolineano che portano le loro aquile a divorare il
leone; e meno aquile si usano più la battaglia è rude e più difficoltà ci sono
per ottenere la vittoria. Ma per perfezionare la nostra Opera, c'è bisogno di
non meno di sette aquile, e se ne
dovrebbe usare almeno nove. Il nostro Mercurio filosofico è l'uccello d'Ermes che viene chiamato anche
Oca o Cigno e talvolta anche Fagiano.»
Queste
sublimazioni sono descritte da Callimaco, nell'Inno a Delo (v. 250, 255), quando dice parlando dei cigni:
(versi in greco)
«(I cigni)
girarono sette volte intorno a Delo... e non avevano ancora cantato l'ottava
volta che nacque Apollo.»
Si tratta
d'una variante della processione che Giosuè fece fare sette volte intorno a Gerico. i cui muri caddero prima dell'ottavo giro
(Giosuè, e. VI, 16).
Per segnalare
la violenza del combattimento che precede questa nostra congiunzione, i Saggi
hanno simbolizzato le due nature con l'Aquila
ed il Leone, di eguale forza, ma di
costituzione contraria. Il leone impersona la forza terrestre e fissa, mentre
l'aquila esprime la forza dell'aria e volatile. Messi uno davanti all'altro, i
due campioni si attaccano, si respingono, si sbranano con decisione fino a
quando, avendo l'aquila perso le ali ed il leone la testa, i due antagonisti
formano un corpo solo di qualità intermedia e di sostanza omogenea, il Mercurio animato.
All'epoca
ormai lontana, in cui, studiando la Scienza sublime ci chinavamo sul mistero,
fitto di grandi enigmi, ci ricordiamo di aver visto costruire un bei palazzo la
cui decorazione non mancò di sorprenderci, poiché trattava di quegli argomenti
ermetici che tanto ci preoccupavano. Sopra il portone d'ingresso, due giovanotti,
un ragazzo ed una ragazza, allacciati, allontanano e sollevano il velo che li
copriva. I loro busti emergono da un mucchio di fiori, foglie e frutta. Sul
coronamento d'angolo, domina un bassorilievo; mostra il combattimento simbolico
dell'aquila e del leone, di cui abbiamo parlato, e si nota facilmente che
l'architetto ebbe una certa pena per sistemare l'ingombrante emblema, imposto
da una volontà intransigente e superiore* (* Questo palazzo, costruito in
pietra squadrata ed alto sei piani, è situato nel XVII «arrondissement»,
all'angolo del boulevard Péreire e della rue de Monbel. Qualcosa di simile c'è
anche a Tousson, vicino Malesherbes (Seine-et-Oise): è una vecchia casa del
XVIII secolo, d'aspetto piuttosto importante, che reca sulla facciata, incisa
con i caratteri dell'epoca, la seguente iscrizione, della quale rispettiamo la
disposizione e l'ortografia:
Par un Laboureur
je suis construit
sans interes et d'un bon zelle,
il m'a nommé PIERRE BELLE.
1762.
(Da un Aratore / io fui costruita. / Non per
interesse e con premuroso zelo / mi ha chiamato PIETRA BELLA. / 1762)
(L'Alchimia
aveva anche il nome di Agricoltura celeste, ed i suoi Adepti si chiamavano Aratori).)…
Il nono
motivo ci permette di approfondire ancora di più il segreto della fabbricazione
del Solvente universale. Una donna,
nel tondo, indica, — allegoricamente, — i materiali necessari alla costruzione
del vaso ermetico; essa tiene alta
una tavoletta di legno, che assomiglia un poco ad una doga di botte, la cui
essenza ci è rivelata dal rametto di quercia
scolpito sullo scudo. Ritroviamo qui la sorgente
misteriosa, scolpita sul contrafforte del portico, ma il gesto del nostro
personaggio tradisce la spiritualità di questa sostanza, di questo fuoco della natura senza il quale niente
può vegetare né crescere quaggiù (tav. XIV). È questo spirito, diffuso sulla
superficie del globo, che dev'essere captato dall'artista ingegnoso, man mano
che procede nella materializzazione. Aggiungeremo ancora che c'è bisogno d'un
corpo particolare che funge da ricettacolo, di una terra attraente nel quale
esso possa trovare il principio suscettibile di riceverlo e di «corporificarlo».
«La radice dei nostri corpi è nell'aria, dicono i Saggi, ed il loro capo è
nella terra.» Quest'ultimo è quella calamita
chiusa nel ventre di Ariete, che dev'essere colta nell'attimo della sua
nascita, con accortezza e abilità.
«L'acqua di
cui noi ci serviamo, scrive l'autore anonimo della Clef du Cabinet Hermétique, è un'acqua che racchiude in sé tutte le
virtù del cielo e della terra; per questo essa è il Solvente generale di ogni Natura; essa apre le porte del nostro
gabinetto ermetico e regale; in essa sono chiusi il nostro Re e la nostra
Regina, e quindi, essa è il loro bagno... È la fontana del Trevisano, nella
quale il Re si spoglia del proprio mantello di porpora per vestirsi d'un abito
nero... È vero che è difficile procurarsi quest'acqua; per questo il
Cosmopolita dice, nel suo Enigma, ch'essa era rara nell'isola... Quest'ultimo
autore ce la segnala più particolarmente con queste parole: non assomiglia
all'acqua delle nubi, ma ne possiede l'apparenza. In un altro passo ce la
descrive con i nomi di acciaio e calamita, perche si tratta d'una vera e
propria calamita che attira verso di sé tutte le influenze del cielo, del sole,
della luna e degli astri, per comunicarle alla terra. Egli dice che questo acciaio si trova in Ariete, che segna l'inizio
della Primavera, quando il sole entra nella costellazione dell'Ariete...
«Flamel ce la
descrive, con una certa precisione, nelle Figure
di Abraham l'Ebreo; egli ci illustra una vecchia quercia cava* (* Vedi p. 79), da cui sgorga una sorgente; con quest'acqua
un giardiniere innaffia le piante ed i fiori di un'aiuola. La vecchia quercia,
che è cava, indica la botte, fatta
col legno di quercia, in essa bisogna far imputridire l'acqua destinata ad
innaffiare le piante, quest'acqua è assai migliore dell'acqua fresca... Ora è
questo il momento per scoprire uno dei grandi segreti di quest'Arte, che i
Filosofi hanno tenuto nascosto, senza questo vaso non potrete raggiungere la putrefazione e la purificazione dei
nostri elementi, proprio come non si potrebbe fare il vino se non lo si sia
lasciato fermentare nel tino. Poiché la botte è di legno di quercia, anche il
vaso deve essere in legno di vecchia quercia, arrotondato all'intemo come una
semisfera, e dai bordi, molto spessi, formanti un quadrato; in mancanza di
questo basta un barile, coperto con un altro badie. Quasi tutti i Filosofi
hanno parlato di questo vaso assolutamente necessario per questa operazione.
Filalete lo descrive per mezzo della favola del Serpente Pitone che Cadmo
trafìsse, da parte a parte, contro una quercia. C'è una figura nel libro delle Douze Clefs* (* Vedi la Douze Clefs de Philosophie del Frate
Basilio Valentino. Parigi, Moët 1659, chiave 12. Ristampa a cura delle Editions
de Minuit, 1956) che rappresenta quest'operazione ed il vaso nel quale essa viene fatta, da cui esce un gran fumo che
indica la fermentazione e l’ebollizione di quest’acqua; questo fumo va verso
una finestra da cui si vede il cielo, con su dipinto il sole e la luna, che
indicano l’origine di quest’acqua e
le virtù ch’essa contiene. È il nostro aceto
mercuriale che discende dal cielo sulla terra e dalla terra sale al cielo».
Abbiamo
riportato qui questo testo perhcé può essere utile, a condizione di saperlo
leggere con prudenza e di capirlo con saggezza. Qui è ancora il caso di
ripetere la massima cara agli Adepti: lo spirito vivifica, ma la lettera
uccide.
Eccoci ora
davanti ad un simbolo assai complesso, quello del Leone. Complesso perché non possiamo, davanti all’attuale nudità
della pietra, accontentarci d’una sola spiegazione. I Saggi hanno attribuito al
Leone diverse qualità, sia per esprimere l’aspetto delle sostanze sulle quali
lavoravano, sia per indicare una qualità speciale e preponderante. Nell’emblema
del Grifone (ottavo motivo), abbiamo visto che il Leone, re degli animali
terrestri, rappresenta la parte fissa, basica d’un composto, fisità che, a
contatto con la volatilità contraria, perdeva la parte migliore di sé, quella
che ne caratterizzava laforma, cioè il linguaggio geroglifico, la testa. Questa
volta dobbiamo studiare l’animale da solo, ed ignoriamo di quale colore era
vestito. Generalmente, il Leone è il segno
dell’oro, segno sia alchemico che naturale; tradue, cioè, le proprietà
fisico-chimiche di questi corpi. Ma i testi danno lo stesso nome alla materia
che, nella preparazione del solvente, accoglie in sé lo Spirito universale, il fuoco
segreto. In ambedue i casi si tratta sempre dell’interpretazione della
potenza, dell’incorruttibilità, della perfezione come del resto è assai ben
indicato dal valoroso con la spada levata, dal cavaliere coperto dalle cotte di
maglia che ci rappresenta il re del bestiario alchemico (tav. XV).
Il
primo agente magnetico che serve a preparare il solvente, — alcuni lo hanno
chiamato Alkaest, — si chiama Leone verde, non tanto perché
possiede una colorazione verde, ma perché non ha ancora acquisito i caratteri
minerali che distinguono chimicamente lo stato adulto dallo stato nascente. È
un frutto ancora verde ed acerbo, se paragonato al frutto rosso e
maturo. È la giovinezza metallica, sulla quale non ha ancora agito
l'Evoluzione, ma che contiene in sé il germe latente d'una energia reale, che
più tardi sarà destinata a svilupparsi. È lo stadio in cui sono l'arsenico ed
il piombo in confronto all'argento ed all'oro. È l'imperfezione di oggi da cui
deriverà la più grande perfezione futura; il rudimento del nostro Elisir.
Alcuni Adepti, tra essi Basilio Valentino, lo hanno chiamato Vetriolo
verde, per significare la sua natura calda, ardente e salina; altri,
invece, Smeraldo dei Filosofi, Rugiada di maggio, Erba di Saturno, Pietra
vegetale, ecc. «La nostra acqua, dice Mastro Atrnaud de Villeneuve, prende
il nome delle foglie di tutti gli alberi, degli alberi stessi e di tutto ciò
che ha un colore verde, per ingannare gli insensati.»
Quanto
al Leone rosso, secondo i Filosofi, non è altro che la stessa materia,
o Leone verde, portata mediante speciali procedimenti a questa tipica
qualità che caratterizza l'oro ermetico o Leone rosso. Per questa
ragione Basilio Valentino ci dà questo consiglio: «Sciogli e nutrisci
il vero Leone col sangue del Leone verde, perché il sangue fisso del Leone
rosso è ricavato dal sangue volatile di quello verde, perché ambedue posseggono
la medesima natura.»
Tra
tutte queste qual è la vera interpretazione? — Confessiamo di non poter
rispondere a questa domanda. Il Leone simbolico era, senza alcun dubbio,
dipinto o dorato. Qualche traccia di cinabro, di malachite o di metallo ci
trarrebbe d'impaccio. Ma non resta più nulla, nient'altro che il calcare
eroso, grigiastro e consunto. Il leone di pietra conserva il suo segreto!
L'estrazione
dello Zolfo rosso ed incombustibile è indicata dalla figura d'un mostro che ha
il doppio aspetto di gallo e di volpe. È lo stesso simbolo di cui si servi
Basilio Valentino nella terza delle sue Douze Clefs. Dice l'Adepto: «Questo superbo mantello insieme al Sole degli Astri,
che segue lo zolfo celeste, conservato con cura per timore che vada a male, lo
farà volare come un uccello, tanto quanto ce ne sarà bisogno, ed il gallo
mangerà la volpe e poi annegherà e si soffocherà nell'acqua, poi riprendendo
vita mediante il fuoco sarà divorato dalla volpe (in modo che ciascuno
giochi la sua parte.» (tav. XVI).
Alla volpe-gallo succede il Toro (tav. XVII).
Considerato come segno zodiacale, è il secondo mese delle
operazioni preparatorie della prima opera e il primo regime di fuoco elementare
della seconda. Considerati dal punto di vista della pratica alchemica, il toro
ed il bue erano consacrati al sole, proprio come la vacca lo è alla luna, e
raffigurano lo Zolfo, principio maschile, dato che il sole è chiamato
metaforicamente da Ermes, Padre della pietra. Quindi, il toro e la vacca, il
sole e la luna, lo zolfo ed il mercurio sono dei geroglifici d'identico
significato ma indicano le nature primitive contrarie, prima della loro
congiunzione, nature che l'Arte sa estrarre dai miscugli imperfetti.
V
Soffermeremo la nostra attenzione su dieci dei dodici medaglioni
che ornano la fascia inferiore del basamento; infatti due motivi hanno subito
delle mutilazioni troppo profonde perché si possa ricostruirne il senso.
Quindi, a malincuore, andremo oltre, senza fermarci davanti ai resti informi
del quinto medaglione (lato sinistro) e dell'undicesimo (lato destro).
Vicino al contrafforte che separa il portico centrale dal portale
nord, ci si presenta per primo un motivo raffigurante un cavaliere
disarcionato che si aggrappa alla criniera d'un focoso cavallo (tav. XVIII). Quest'allegoria si riferisce
all'estrazione delle parti fisse, centrali e pure, mediante quelle volatili o
eteree con la Soluzione filosofica. Si tratta più propriamente della
rettificazione dello spirito ottenuto e della distillazione ripetuta di
questo spirito sulla materia pesante. Il cavallo, simbolo di rapidità e
leggerezza, indica la sostanza spirituale; il suo cavaliere indica la
pesantezza del corpo metallico grezzo. Ad ogni distillazione, il cavallo
disarciona il suo cavaliere, il volatile abbandona il fisso; ma lo scudiero
riassume nuovamente il comando, e così fin quando l'animale estenuato, vinto e
sottomesso; acconsente a portare quel fardello ostinato e non può più liberarsene.
L'assorbimento del fisso da parte del volatile avviene lentamente e a fatica.
Per riuscirvi bisogna avere molta pazienza e perseveranza e ripetere spesso
l'affusione dell'acqua sulla terra, dello spirito sul corpo. Soltanto con
questa tecnica. — per la verità lunga e fastidiosa, — si riesce ad estranre il sale
nascosto del Leone rosso con l'aiuto dello spirito del Leone
verde. Il corsiero di Notre-Dame è simile al Pegaso alato della
favola (radice parola greca, sorgente). Come l'altro, getta a terra i
suoi cavalieri, che si chiamano Perseo e Bellerofonte. È ancora lui che
trasporta Perseo, attraverso il cielo, nel regno delle Esperidi, e
fa sgorgare, con un colpo di zoccolo, la fontana Ippocrene, sul monte
Elicona, fontana che, si racconta, fu poi scoperta da Cadmo.
Nel secondo
medaglione, l'Iniziatore ci presenta con una mano uno specchio, mentre
con l'altra alza il corno di Amaltea; al suo fianco c'è l'Albero della Vita
(tav. XIX). Lo
specchio simboleggia l'inizio dell'opera, l'Albero della Vita ne indica la fine
e il corno dell'abbondanza si riferisce al risultato.
Alchemicamente, la materia prima, quella che l'artista deve prescegliere
per iniziare l'Opera, è chiamata Specchio dell'Arte. Moras de Respour* (* De Respour, Rares Experiences sur l'Esprit minéral. Parigi, Langlois et Bar-bin, 1668.) ci dice:
«Comunemente tra Filosofi essa è indicata col nome di Specchio dell'Arte, perché
è soprattutto per mezzo suo che si è conosciuta la composizione dei metalli
nelle vene della terra... Così si dice che soltanto l'indicazione proveniente
dalla natura ci può istruire.» È
cosi che insegna anche il Cosmopolita* (* Nouvelie Lumière chymique. Traile
du Soufre. Parigi, d'Houry, 1649, p. 78.), quando parla dello
Zolfo: «Nel suo regno c'è uno specchio nel quale si può vedere tutto il
mondo. Chiunque guardi in questo specchio può vedere ed imparare le tre
parti della Sapienza di tutto questo mondo, ed in questo modo diventerà assai
sapiente in questi tre regni, come lo sono stati Aristotele, Avicenna e molti
altri; i quali, come i loro predecessori, hanno potuto vedere in questo specchio
in che modo è stato creato il mondo.» Basilio Valentino, nel suo Testamentum, scrive:
«L'intero corpo del Vetriolo deve essere considerato proprio come uno Specchio
della Scienza filosofica... È uno Specchio nel quale si vede brillare ed
apparire il nostro Mercurio, nostri Sole e Luna, e per mezzo suo in un attimo
si può mostrare e provare all'incredulo Tommaso la cecità della sua crassa
ignoranza.» Perneiy nel
suo Dictionnaire Mytho-Hermétique non ha citato mai questo termine, sia
che non lo abbia conosciuto, sia che l'abbia omesso volontariamente. Questo soggetto.
così volgare e così disorezzato. diventa in seguito l'Albero della Vita, Elisir o Pietra filosofale,
capolavoro della natura aiutata dalla capacità umana, puro e ricco gioiello
alchemico. Sintesi metallica assoluta, essa assicura al fortunato possessore
di questo tesoro il triplo appannaggio del sapere, della ricchezza e della
salute. È il corno dell'abbondanza, sorgente inestinguibile delle felicità
materiali del nostro mondo terreno. Ricordiamo infine che lo specchio è l’attributo
della Verità, della Prudenza e della Scienza presso tutti i poeti e
mitologi greci.
Ecco ora l'allegoria del peso di natura: l'alchimista leva
il velo che copriva la bilancia (tav. XX).
Nessun Filosofo è stato prolisso circa il segreto dei pesi.
Basilio Valentino s'è accontentato di dire
che bisognava « dare un cigno bianco al doppio uomo igneo » che
corrisponderebbe a ciò che si può vedere nel Sigillum Sapìentum di
Huginus a Barma, in cui l'artista tiene una bilancia di cui un piatto trascina
l'altro secondo il rapporto di due a uno. Il Cosmopolita, nel suo Trattato
sul Sale, è ancora meno preciso: «Il peso dell'acqua, egli dice, dev'essere
plurale, e quello della terra in lamelle bianche o rosse dev'essere singolare.» L'autore degli Aphorismes
Basiliens, o Canons Hermétiques
de l'Esprit et de l'Ame* (*Stampati in fondo alle Oeuvres
tant Medicinales que Chymiques, del R.P. de Castaigne. Parigi, de la Nove,
1681.), scrive nel canone XVI: «Noi iniziamo la nostra opera ermetica con
la congiunzione di tre principii preparati con una certa proporzione, essa si
basa sul peso del corpo, che deve eguagliare lo spirito e l'animo quasi per
metà.» Se ne hanno parlato anche Raimondo Lullo e Filalete, molti hanno
preferito tacere; alcuni pretendono che solo la natura attribuiva le qualità
secondo un'armonia misteriosa ignorata dall'Arte. Ma queste contraddizioni non
resistono ad un esame approfondito. Infatti, sappiamo che il mercurio
filosofico deriva da una determinata quantità di mercurio che ha assorbito una
certa parte di zolfo; quindi è indispensabile conoscere esattamente le reciproche
proporzioni dei componenti, se si segue la via antica. Non abbiamo certo
bisogno di ricordare che queste proporzioni sono avvolte da similitudini e
coperte d'oscurità, anche negli scritti degli autori più sinceri. Ma si deve
notare, d'altra parte, che è possibile sostituire l'oro volgare allo zolfo
metallico; in questo caso, l'eccesso di solvente può sempre essere separato
mediante distillazione, ed il peso si trova ridotto ad un semplice
apprezzamento della consistenza. È chiaro che la bilancia costituisce un
indizio prezioso per la determinazione della via antica, dalla quale sembra
che si debba escludere l'oro. Ci vogliamo riferire all'oro volgare che non ha
subito né la volatilizzazione né la trasfusione, operazioni che,
modificando le sue proprietà ed i suoi caratteri fisici, lo rendono adatto al
lavoro dell'alchimista.
Una soluzione
particolare e poco usata ci è dettata da uno dei cartigli che noi stiamo
studiando. È quello dell'argento vivo volgare, per ricavare i] mercurio
comune dei Filosofi, che essi chiamano il «nostro» mercurio, per
distinguerlo dal metallo fluido dal quale proviene. Sebbene si possano
incontrare frequentemente delle descrizioni abbastanza estese su quest'argomento,
non nasconderemo che una tale operazione ci sembra azzardata, se non
addirittura sofistica. Secondo il punto di vista degli autori che ne hanno
parlato, il mercurio volgare, purificato da ogni impurità e perfettamente
volatilizzato, assumerebbe una qualità ignea che normalmente non ha, e sarebbe
capace di diventare, a sua volta, solvente. Una regina, seduta in trono, fa
cadere con un calcio un valletto che, con una coppa in mano, viene ad offrirle
i suoi servigi (tav. XXI). Si
deve quindi vedere in questa tecnica, supponendo ch'essa possa fornire
l'atteso solvente, solo una modificazione della via antica, e non una pratica
speciale, perché l'agente resta sempre lo stesso. Ora, noi non vediamo che
vantaggio si potrebbe ricavare da una soluzione di mercurio ottenuta per mezzo
del solvente filosofico, dato che proprio quest'ultimo è l'agente principale e
segreto per eccellenza. Eppure è quello che sostiene Sabine Stuart
de Chevalier-
(*Sabine de Chevalier, Discours philosophique sur le Trois Principes, o la Clej du Simctuaire
philosophique. Paris, Quillau, 1781.). Quest'autrice scrive: «Per ottenere il
mercurio filosofico, si deve dissolvere il mercurio volgare senza diminuire
in nulla il suo peso, perché tutta la sua sostanza dev'essere convertita in
acqua filosofica. I Filosofi conoscono un fuoco naturale che penetra fino al
cuore del mercurio e che lo spegne interiormente e conoscono anche un solvente
che lo cambia in acqua argentina pura e naturale; essa non contiene e non deve
contenere nessun corrosivo. Non appena il mercurio è sciolto dai suoi legami, ed è vinto dal colore, assume
la forma d'acqua, e quest'acqua è la cosa più preziosa del mondo. Ci vuole
assai poco tempo perché il mercurio volgare prenda questa forma.» Saremo certo
scusati di non essere dello stesso parere, e di non credere, per
delle buone ragioni, basate sull'esperienza, che il mercurio volgare,
sprovvisto del proprio agente, possa diventare un'acqua utile per
l'Opera. Il servus fugitivus di cui abbiamo bisogno è un'acqua
minerale e metallica, solida, fragile, che ha l'aspetto di pietra
ed è molto facile da liquefarsi. Quest'accia coagulata in forma di massa
pietrosa è l’Alkaest* (*Secondo Van
Helmont si
tratta d'un solvente capace di riportare alla loro vitalità primitiva tutti i
corpi della natura N.d.T.) e Solvente Universale. Se
è meglio leggere i Filosofi, — secondo il consiglio di Filalete, — con un
granello di sale, sarebbe meglio utilizzare tutta la saliera per lo studio di Stuart de Chevalier.
Un vecchio
intirizzito dal freddo, curvo sotto il tondo del medaglione seguente,
s'appoggia, stanco e debole, su di un blocco di pietra; una specie di manicotto
avvolge la sua mano sinistra (tav. XXII).
È facile
riconoscere in questa figura la prima fase della seconda Opera, quando il Rebis
ermetico, chiuso nel centro dell'Athanor, subisce la sconnessione delle
sue parti e procede verso la mortificazione. È l'inizio, attivo e dolce, del fuoco
di ruota simbolizzato dal freddo e dall'inverno, periodo embrionale nel
quale i semi, chiusi nel seno della terra filosofale, subiscono l'influenza
fermentatrice dell'umidità. Sta per cominciare il regno di Saturno, emblema
della radicale dissoluzione, della decomposizione e del color
nero. Basilio Valentino
così lo fa parlare: «Io sono
vecchio, debole e malato, perciò sono rinchiuso in una fossa... Il fuoco mi
tormenta molto e la morte rompe le mie carni e le mie ossa.» Un certo Demetrio,
viaggiatore citato da Plutarco, — i Greci hanno certo superato tutti quanti gli
altri perfino nelle smargiassate, — racconta con la massima serietà che in una
delle isole da lui visitate presso la costa inglese, si trovava Saturno
prigioniero e sepolto in un profondo sonno. Il gigante Briareo (Egeo) è il
guardiano della sua prigione. Ed ecco in che modo, por mezzo delle favole
ermetiche, autori anche celebri, hanno scritto la Storia!
Il sesto
medaglione non è altro che una ripetizione frammentaria del secondo. Ritroviamo
l'Adepto, a mani giunte, nell'attitudine di preghiera, che sembra rendere
grazie alla Natura, raffigurata sotto l'aspetto d'un busto femminile riflesso
da uno specchio. Riconosciamo qui il geroglifico del soggetto dei
Saggi, lo specchio nel quale «si vede apertamente tutta la natura» (tav. XXIII).
Alla destra del portico, il settimo medaglione ci mostra un vecchio
pronto a passare la soglia del Palazzo misterioso. Egli ha appena tolto
il velo che nascondeva l'ingresso agli sguardi profani. È il primo passo
compiuto nella pratica, la scoperta dell'agente capace d'operare la riduzione
del corpo fisso, capace di compiere il reincrudimento, secondo il termine
tramandatoci, in una forma analoga a quella della sua sostanza primitiva (tav. XXIV). Gli alchimisti alludono a
quest'operazione quando parlano di rianimare le corporificazioni, cioè
di rendere viventi i metalli morti. Bisogna saper aprire la prima porta di
Ripley e di Basilio Valentino, è la Porta
del Palazzo chiuso del Re di Filalete. Il vecchio altri non è se non il
nostro Mercurio, agente segreto di cui numerosi bassorilievi ci hanno
rivelato la natura, il modo d'agire, i materiali ed il tempo di preparazione.
Quanto al Palazzo, rappresenta l'oro vivo o filosofico, oro vile, disprezzato
dagli ignoranti, e nascosto sotto i cenci che lo celano agli sguardi, sebbene
sia tanto prezioso per chi ne conosce il valore. Dobbiamo vedere in questo
motivo una variante dell'allegoria dei Leoni verde e rosso, del solvente
e del corpo da sciogliere. Infatti, il vecchio, identificato dai testi con
Saturno, — che, si dice, divora i suoi figli, — era, una volta, dipinto
in verde, mentre l'interno visibile del Palazzo mostrava una tinta di porpora.
Diremo più in là a quale testo ci si può riferire per stabilire, grazie ai
colori originali, il significato di tutte queste figure. Si deve anche notare
che il geroglifico di Saturno, considerato solvente, è molto antico. Su di un
sarcofago del Louvre, che aveva contenuto la
mummia d'un prete di nome Poeris, scriba d'un tempio di Tebe, si può osservare
sul lato sinistro il dio Sou, che
sostiene il cielo con l'aiuto del dio Knubis (anima del mondo), mentre ai loro
piedi giace il dio Ser (Saturno) sdraiato, dalle membra di colore verde.
Il tondo seguente ci permette d'assistere all'incontro tra il vecchio
ed il re incoronato, del solvente e del corpo, del principio volatile e del
sale metallico fisso, incombustibile e puro. L'allegoria si avvicina molto al
testo fatto di parabole di Bernardo Trevisano,
nelle quali «il prete vecchio e di età avanzata» si mostra così bene edotto
sulle proprietà della fontana occulta, sulla sua azione sul «re del paese»
ch'essa ama, attira e sommerge. In questo procedimento, e quando si rianima il
mercurio, l'oro o re è sciolto poco per volta e senza violenza; lo stesso non
avviene nella seconda in cui, contrariamente all'amalgama ordinario, il
mercurio ermetico sembra attaccare il metallo con una forza caratteristica che
rassomiglia abbastanza alle effervescenze chimiche. A questo proposito i Saggi
hanno detto che durante la Congiunzione si alzavano delle violente tempeste,
dei grandi temporali, e che i flutti del loro mare offrivano lo spettacolo
d'un «aspro combattimento». Alcuni hanno avvicinato questa reazione alla lotta
ad oltranza tra animali diversi: aquila e leone (Nicolò Flamel); gallo
e volpe (Basilio Valentino),
ecc. Ma secondo noi, la descrizione migliore, — soprattutto la più
iniziatica, — è quella lasciataci dal grande filosofo Cyrano Bergerac sullo spaventoso duello che sotto
i suoi occhi combatterono la Remora e la Salamandra. Altri ancora,
e sono i più numerosi, attinsero le loro immagini dalla genesi prima e
tradizionale della Creazione, essi hanno descritto la formazione dell'amalgama
filosofale paragonandolo a quello del caos terrestre, nato dallo
sconvolgimento e dalle reazioni del fuoco e dell'acqua, dell'aria e della
terra.
Per la sua
umanità e familiarità, lo stile di Notre-Dame, non è meno nobile
né meno espressivo. Le due nature sono raffigurate da due bambini aggressivi e
battaglieri che, venendo alle mani, non si risparmiano gli scapaccioni. Al
culmine della lotta, uno di essi lascia cadere un vaso, e l'altro una pietra
(tav. XXV). Non è assolutamente possibile
descrivere con più chiarezza e semplicità l'azione dell'acqua pontica sulla
rozza materia, e questo medaglione fa grande onore al maestro che l'ha
concepito.
In questa
serie di argomenti, con la quale termineremo la descrizione delle figure del
grande portico, appare nettamente che l'idea direttrice ebbe come obbiettivo la
concentrazione dei punti variabili della pratica della Soluzione. Infatti essa
da stila è sufficiente per indicare la strada seguita. La prima via è caratterizzata dalla soluzione
dell'oro alchemico col Solvente Alkaest; la seconda è indicata dalla soluzione
dell'oro volgare col nostro mercurio. Per mezzo di quest'ultima si
realizza il mercurio animato.
Infine, una seconda soluzione, quella dello Zolfo, rosso o bianco,
con l'acqua filosofica, è l'oggetto del dodicesimo ed ultimo bassorilievo. Un
guerriero lascia cadere la propria, spada e si ferma, interdetto, davanti ad
un albero ai piedi del quale si alza un ariete; l'albero ha tre enormi
frutti in forma di palla, e tra i rami si vede emergere il profilo d'un
uccello. Ritroviamo qui l'albero solare, descritto dal Cosmopolita nella
Parabola del Traile de la Nature, albero dal quale si deve estrarre
l'acqua. Quanto al guerriero, rappresenta l'artista che ha appena compiuto la fatica
d'Ercole della nostra preparazione. L'ariete sta a testimoniare che
ha scelto la stagione propizia e la sostanza adatta; l'uccello precisa la
natura volatile del composto « più celeste che terrestre». Ormai, non deve far altro che imitare Saturno, il
quale, dice il Cosmopolita, «attinse dieci parti di quest'acqua, prese subito
il frutto dell'albero solare e lo mise in quest'acqua... Perché quest'acqua è l'Acqua
della vita che ha la capacità di migliorare i frutti di quest'albero; di
modo che, ormai, non ci sarà più bisogno di piantarne né di innestarne; perché
essa potrà, col suo odore soltanto, rendere della stessa sua natura tutti i rimanenti
sei alberi . Per di più questa raffigurazione è una replica della famosa
spedizione degli Argonauti, nella quale troviamo Giasone vicino all'ariete dal
vello d'oro ed all'albero dai frutti preziosi del Giardino delle Esperidi.
Nel corso di
questo studio abbiamo avuto l'occasione di deplorare sia i deterioramenti di
stupidi iconoclasti, sia la completa sparizione del rivestimento policromo
posseduto, un tempo, dalla nostra cattedrale. Non ci resta più nessun documento
bibliografico capace d'aiutare l'investigatore e di rimediare, anche solo in
parte, all'oltraggio dei secoli. Eppure non è assolutamente necessario
consultare vecchie pergamene né sfogliare inutilmente le vecchie stampe:
Notre-Dame stessa conserva i colori originali delle figure del gran portico.
Guillaume de Paris,
del quale dobbiamo
benedire la perspicacia, seppe prevedere il grave danno che il tempo avrebbe
arrecato alla sua opera. Da maestro oculato, fece riprodurre minuziosamente i
motivi dei medaglioni sulla vetrata del rosone centrale. Così il vetro viene
a completare la pietra e, grazie all'aiuto della fragile materia, l'esoterismo
riconquista la sua primitiva purezza.
Si potrà, così, scoprire il significato dei punti dubbi dei
bassorilievi. Per esempio, la vetrata, per l'allegoria della Distillazione
ripetuta (primo medaglione), ci presenta, non un semplice cavaliere, ma un
principe incoronato con una corona d'oro, vestito di bianco, con le calze
rosse; dei due bambini che litigano, uno è verde, l'altro grigio-viola; la regina
che getta a terra il Mercurio porta una corona bianca, una camicia verde ed un
mantello porpora. Si sarà anche sorpresi nello scoprire alcune immagini ormai
sparite dalla facciata, come, per esempio, quell'artigiano, seduto davanti ad
un tavolo rosso e che tira fuori da un sacco delle grandi monete d'oro, o
questa donna, dal corsetto verde, vestita con una blusa scarlatta che sta
lisciando i suoi capelli davanti allo specchio; o quei Gemelli, dello zodiaco
inferiore, di cui uno è rubino, e l'altro
smeraldo, ecc...
Quale
profondo argomento di meditazione ci offre l'ancestrale Idea ermetica con la
sua armonia e la sua unità. Pietrificata sulla facciata, vetrificata
nell'enorme orbe del rosone, essa passa dal mutismo alla rivelazione, dalla
gravita all'entusiasmo, dall'inerzia all'espressione viva. Consunta, rozza e
fredda sotto la cruda luce dell'esterno, essa sorge dal cristallo in fasci
colorati e penetra sotto le navate, vibrante, calda, diafana e pura come la
Verità medesima.
Lo spirito non può fare a meno d'essere scosso in presenza di
quest'altra antitesi, ancora più paradossale: la fiaccola del pensiero
alchemico che illumina il tempio del pensiero cristiano!
VI
Lasciamo il
gran portico e andiamo al portale nord o della Vergine.
Guardate il
sarcofago, accessorio d'un episodio della vita del Cristo; esso è posto al
centro del timpano, sulla cornice mediana; noterete sette cerchi: sono i
simboli dei sette metalli planetari (tav. XXVI).
Le soleil*
(* II sole indica l'oro, l'argento vivo il Mercurio; / Ciò che
Saturno è per il piombo. Venere lo è per il bronzo; / La Luna dell'argento,
Giove dello stagno, / E Marte del ferro son
la figura
N.d.T.) marque l'or, le vif argent le Mercure;
Ce qu'est Saturne au
plomb, Vénus l'est a l'airain;
La Lune de l'argent, Jupiter de l'étain,
Et Mars du fer sont la figure* (*La Cabale Intellective. Mss. della Biblioteca dell'Arsenal, S. e A. 72, p. 15.).
Il cerchio centrale è decorato in modo particolare, mentre gli
altri si ripetono a due a due, — cosa che non accade mai nei motivi puramente
decorativi dell'arte ogivale. Ed anzi, questa simmetria va dal centro verso
l'estremità, come c'insegna il Cosmopolita: «Guarda il cielo e le sfere dei
pianeti; vedi come Saturno è il più in alto di tutti, a lui succede Giove, e
poi Marte, il Sole, Venere, Mercurio ed infine
la Luna. Ora considera che le virtù dei pianeti non salgono ma scendono; anche
l'esperienza c'insegna che Marte si converte facilmente in Venere, e non Venere
in Marte, perché essa è più in bassodi una sfera. Così Giove si tramuta
facilmente in Mercurio, perché Giove è più in alto di Mercurio, il primo è il
secondo dopo il firmamento, l'altro è il secondo sopra la terra; e Saturno è
quello più in alto e la Luna quella più in basso; il Sole si mescola con tutti
ma non è mai migliorato dagli inferiori. Noterai che c'è una grande
corrispondenza fra Saturno e la Luna, in mezzo ad essi, infatti, c'è il Sole,
lo stesso accade per Mercurio e Giove, Marte e Venere, che hanno tutti il Sole posto
nel mezzo, tra di loro.»
La
concordanza di mutazione dei pianeti metallici tra di loro è quindi indicata,
sul portico di Notre-Dame, nel modo più chiaro. Il motivo centrale simbolizza
il Sole; le rose dell'estremità indicano Saturno e la Luna; poi vengono
rispettivamente Giove e Mercurio, ed infine, da una. parte e dall'altra del
Sole, Marte e Venere.
Ma c'è di
meglio. Se analizziamo quella linea bizzarra che sembra congiungere la
circonferenza delle rose, noteremo che è formata dalla successione di quattro
croci e di tre volute a spirale, di queste tre una è a spirale semplice e le
altre due a spirale doppia. Notate, poi, che se si trattasse solo di voler
ornare il sarcofago, ci vorrebbero sei od otto di questi motivi aggiuntivi, per
mantenere una simmetria perfetta; ma non è cosi, perché uno spazio, quello di
sinistra, rimane vuoto; cosa, questa, che prova definitivamente che il senso
simbolico è voluto.
Le quattro croci, proprio come nella
simbologia spagirica, rappresentano i metalli imperfetti; le volute a spirale
doppie i metalli perfetti, e la voluta semplice il mercurio, semi-metallo o
semi-perfetto.
Ma se,
lasciando il timpano, abbassiamo lo sguardo verso la parte sinistra del
basamento, che è ripartito in cinque nicchie, noteremo entro l'estradosso di
ogni arcata delle strane figurine.
Andando
dall'esterno verso destra, ecco il cane e le due colombe (tav. XXVII) che
troviamo descritte nell'animazione del mercurio volatile; questo è il cane di Corascene, di cui parlano
Artephius e Filalete, che bisogna riuscire a separare dal compost allo stato di
polvere nera; e quelle sono le Colombe di
Diana, altro enigma disperante, nel quale sono nascoste la
spiritualizzazione e la sublimazione del mercurio filosofale. Troviamo poi l'agnello, simbolo dell'edulcorazione del
principio arsenicale della Materia; l'uomo
voltato, il quale rappresenta, meglio che sia possibile, l'apoftegma
alchemico solve et
coagula, che insegna a realizzare la conversione elementare volatilizzando
il fisso e fissando il volatile (tav. XXVIII):
Si le fixe tu sçays dissouldre,
Et le dissoult faire voller,
Puis le vollant fixer en pouldre,
Tu as de quoy te consoler*'.
(*Se
sai dissolvere il fisso, / e far volare il volatile, / e poi fissare in polvere
il volatile, / ti puoi rallegrare N.d.T.).
In questa
parte del portico si trovava scolpito, una volta, il geroglifico maggiore
della nostra pratica: il Corvo.
Il corvo di
Notre-Dame, figura principale del blasone ermetico, aveva esercitato, in ogni
epoca, un'attrazione assai viva sulla folla dei soffiatori; infatti una vecchia
leggenda lo indicava come l'unico punto di riferimento d'un sacro deposito. Si
racconta che Guillaume de Paris, «il
quale, dice Victor Hugo, è stato senz'altro dannato per aver posto un
frontespizio così infernale sul santo poema cantato per l'eternità dal resto
dell'edificio», avrebbe
nascosto la pietra filosofale in uno dei pilastri dell'immensa navata. Ed il
punto esatto del misterioso nascondiglio era determinato con precisione
dall'angolo visuale del corvo...
Quindi, secondo la leggenda, l'uccello simbolico, un tempo, fissava,
dall'esterno, il posto, incognito a tutti, del sacro pilastro nel quale
sarebbe stato murato il tesoro.
Sul lato esterno dei pilastri senza imposta, che sostengono l'architrave
e lo sviluppo della volta, sono rappresentati i segni dello zodiaco.
S'incontrano per primi, dal basso verso l'alto, Aries, poi Taurus e, al di sopra, Gemini. Sono
i mesi primaverili che indicano l'inizio del lavoro ed il tempo propizio per le
varie operazioni.
Ci si potrà obbiettare che lo zodiaco può non avere un significato
occulto e rappresentare unicamente la zona delle costellazioni. È possibile.
Ma, in questo caso, dovremmo ritrovare l'ordine astronomico, la successione
cosmica delle figure zodiacali che i nostri Antenati non hanno ignorato. Ora, a
Gemini, succede Leo, che prende il posto di Cancer, respinto sul pilastro di fronte.
Lo scultore* (*Imaigier nel testo (N.d.T.) ha
voluto, quindi, indicare con quest'abile trasposizione, ia congiunzione del
fermento filosofico. — o Leone, — con l'amalgama mercuriale, unione che
si deve compiere verso la fine del quarto mese della prima Opera.
Sotto questo portico, si nota anche un piccolo rilievo quadrangolare
veramente curioso. Sintetizza ed esprime la condensazione dello Spirito
universale, il quale forma, non appena si è materializzato, il famoso Bagno
degli astri, nel quale si devono bagnare il sole e la luna chimici, per
cambiare natura e ringiovanire. In questo bassorilievo vediamo un bambino
cadere da un crogiuolo grande come una giara, mantenuta verticale da un
arcangelo in piedi, avvolto da nubi, con un'ala distesa e che sembra colpire
l'innocente. Tutto il fondo della composizione è occupato da un cielo notturno
e stellato (tav. XXIX). Riconosciamo
in questo soggetto, l'allegoria molto semplificata, cara a Nicolò Flamel, del Massacro
degli Innocenti, che tra breve vedremo su di una vetrata della
Sainte-Chapelle.
Senza entrare in dettagli circa la tecnica da seguire nelle varie
operazioni, — cosa che nessun Autore ha osato fare, — diremo, però, che lo Spinto
universale, corporificato nei minerali con il nome alchemico di Zolfo, costituisce
il principio e l'agente efficace di ogni tintura metallica. Ma questo Spirito,
questo rosso sangue dei fanciulli, può essere ottenuto solo scomponendo ciò
che la natura aveva prima composto in essi. Quindi è necessario che il corpo
perisca, che sia crocifisso e che muoia se se ne vuole estrarre l'anima, la
vita metallica e la Rugiada celeste, ch'esso teneva rinchiusa. E
questa quintessenza, travasata in un corpo puro, fisso, perfettamente
digerito, farà nascere una nuova creatura, assai più splendente dei corpi da
cui deriva. I corpi non hanno alcuna possibilità d'agire gli uni sugli altri;
solo lo spirito è attivo ed agente.
Per questa ragione, i Saggi, sapendo che il sangue minerale di cui
avevano bisogno per animare il corpo fisso ed inerte dell'oro non era altro che
una condensazione dello Spirito universale, anima di tutte le cose: sapendo che
questa condensazione, sotto la forma umida, capace di penetrare e rendere
vegetative le misture sublunari, avveniva soltanto di notte, col favore delle
tenebre, del cielo puro e dell'aria calma; sapendo, infine, che la stagione in
cui essa si manifestava più attivamente e più abbondantemente corrispondeva
alla primavera celeste, i Saggi, per tutte queste ragioni, le diedero il nome
di Rugiada di Maggio. Perciò Thomas Corneille* (*Dìctionnaire des Arts e des Sciences, art. Rose-Croix. Parigi, Coignard, 1731.) non ci
sorprende quando dichiara che i grandi maestri della Rosa-Croce erano de la
Rosée-Cuite* (*Fratelli
della Rugiada-Cotta. Anche qui c'è l'accostamento cabalistico tra Rose (rosa)
e Rosee (rugiada) N.d.T.), e questo era il significato
ch'essi davano alle iniziali del loro ordine: F.R.C.
Vorremmo poter
dire di più su quest'argomento d'estrema importanza e mostrare come la Rosee
de Mai* (*Rugiada di Maggio (N.d.T.) (Maia era la madre di Ermes), — umidità vivificante del
mese di Maria, la Vergine madre. — si estragga facilmente da un corpo
particolare, abietto e disprezzato, del quale abbiamo già descritto le
caratteristiche, se non esistessero dei limiti invalicabili... Abbiamo
raggiunto il più alto segreto dell'Opera e desideriamo mantenere il nostro
giuramento. È questo il Verbum dimissum del Trevisano, la Parola
perduta dei frammassoni medioevali, quella che tutte le Confraternite
ermetiche speravano di trovare, e la cui ricerca costituiva lo scopo dei loro
lavori e la ragione d'essere della loro esistenza* (*Tra
i più celebri centri d'iniziazione di questo tipo citeremo gli ordini degli Illuminati,
dei Cavalieri dell'Aquila nera, delle Due Aquile, dell’Apocalisse; i Fratelli
Iniziali dell'Asia, della Palestina, dello Zodiaco; le
Società dei Fratelli neri, degli Eletti Coëns, dei Mopsi, delle
Sette-Spade, degli Invisibili, dei Principi della Morte; e
poi i Cavalieri del Cigno, istituiti da Elia, i Cavalieri del Cane e
del Gallo, i Cavalieri della Tavola rotonda, della Genetta, del
Cardo, del Bagno, della Bestia morta, dell'Amaranto, ecc...).
Post tenebras lux. Non
dimentichiamolo. La luce nasce dalle tenebre; essa è diffusa nell'oscurità,
nel buio, come il giorno lo è nella notte. È dal Caos oscuro che fu
estratta la luce riunendo i suoi raggi dispersi, e se, nel giorno della
Creazione, lo Spirito divino si muoveva sulle acque degli Abissi, — Spiritus
Domini ferebatur super aquas, —
questo spirito invisibile, dapprima non poteva essere distinto dalla massa
acquea e si confondeva con essa.
Infine
ricordatevi che Dio impiegò sei giorni per compiere la sua Grande Opera,
che la luce fu separata il primo giorno e che i giorni seguenti furono
determinati, come i nostri, da intervalli regolari ed alternati d'oscurità e di
luce:
A minuit, une Vierge mère
Produit cet astre lumineux:
En ce moment miraculeux
Nous appelons Dieu notre frère.*
(* A mezzanotte, una Verginemadre, /
produce quest’astro luminoso; / in questo attimo miracoloso / noi chiamiamo Dio
nostro fratello N.d.T.)
Dal punto di
vista ermetico, l'emblema di cui ci stiamo occupando ne è una prova. Un'altra
prova la troviamo nell'Enciclopedia del XVIII secolo, nella quale si asserisce che
la Grande Opera può essere compiuta mediante due vie, una chiamata via umida,
più lunga ma tenuta in alta considerazione, ed un'altra, via secca, molto meno
apprezzata. In quest'ultima bisogna «cuocere il Sale celeste, cioè il
mercurio dei Filosofi, con un corpo metallico terrestre, in un crogiuolo, a
diretto contatto col fuoco, per quattro giorni».
Nella seconda
parte d'un'opera attribuita a Basilic Valentino* (*Azoth o oyen de jaire
l'Or caché des Philosophes. Parigi, Pierre Moèt, 1659, p. 140.), ma che sarebbe piuttosto opera di
Senior Zadith, l'autore sembra che si riferisca alla via secca quando scrive
che, «per giungere a quest'Arte, non c'è bisogno di gran lavoro e di fatica, la
spesa è poca e gli strumenti di poco valore. Perché quest'Arte può essere
imparata in meno di dodici ore, e portata alla perfezione in otto giorni, quando
ha in sé il suo proprio principio».
Filalete, nel
capitolo XIX dell'Introitus,
dice, dopo aver
parlato della via lunga, che asserisce essere noiosa e buona soltanto per le
persone ricche: «Ma, con la nostra via, non ci vuole più d'una settimana.
Dio ha riservato questa via rara e facile per i poveri disprezzati e per i
suoi santi coperti d'abiezione.» Per di più, nelle sue Note su questo
capitolo, Lenglet-Dufresnoy pensa che «questa via si compie con il doppio
mercurio filosofico. In questo modo, egli aggiunge, l'Opera è compiuta in otto
giorni, invece dei diciotto mesi, circa, della prima via».
Questa via
più corta, ma nascosta da uno spesso velo, è stata chiamata dai Saggi Regime
di Saturno, La cottura dell'Opera invece d'aver bisogno dell'uso d'un vaso
di vetro, richiede solo che ci si serva d'un semplice crogiuolo. «Io sconnetterò
il tuo corpo in un vaso di terra ed in esso ti seppellirò» scrive un
autore celebre* (*Salomon Trismosin, La Toysan d'Or. Parigi,
Sevestre Ed. 1612, pp. 72 e 110.), e più in là aggiunge: «Accendi un
fuoco nel tuo vetro, cioè nella terra che lo tiene chiuso. Questo metodo
rapido, che ti abbiamo liberalmente insegnato, mi sembra la via più corta e la
vera sublimazione filosofica per giungere alla perfezione di questa grande
fatica.» In questo modo si potrebbe spiegare la massima fondamentale della
Scienza: un solo vaso, una sola materia, un solo fornello.
Ciliani,
nella Prefazione del suo libro* (*Ciliani, Hermès dévoilé. Parigi, F. Locquin,
1832.), riferisce i due procedimenti con queste parole :
«Io penso di
dover avvertire qui che non si deve mai dimenticare che c'è bisogno soltanto di
due materie della stessa origine, una volatile, l'altra fissa; che ci sono due
vie, la via secca e la via umida. Io seguo quest'ultima, di preferenza, per
dovere, sebbene la prima mi sia assai familiare: essa si compie con una materia
unica.»
Anche Henri
de Lintaut si fa testimone in favore della via secca : infatti scrive* (* H. de
Lintaut, L'Aurore. Mss. Biblioteca dell'Arsenal, S.A.F. 169, n. 3020.): «Questo
segreto supera tutti i segreti del mondo, perché voi potete in poco tempo senza
grande cura ne lavoro, giun gere ad una grande proiezione, su quest'argomento
leggete le opere di Isaac Hollandois, che ne parla più diffusamente.»
Sfortunatamente il nostro autore non è più prolisso dei suoi confratelli.
Henckel* (*F. Henckel, Traile de l'Appropriatìon. Parigi, Thomas Hérissant,
1760,p. 375, § 416.) scrive: «Quando penso che l'artista Elia, citato da
Helvetius, pretende che la preparazione della pietra filosofale s'inizi e si
finisca in quattro giorni, e che, in effetti, ha mostrato questa pietra ancora
aderente ai cocci del crogiuolo, mi pare che non sarebbe poi cosi assurdo
mettere in questione quello che dicono gli alchimisti, se quello ch'essi
chiamano lunghi mesi non fosse di tanti giorni, ma fosse un periodo di tempo molto
più limitato; e se esistesse un metodo nel quale tutta l'operazione consistesse
solo nel tenere la materia al più alto grado di fluidità, cosa che si potrebbe
ottenere con fuoco molto forte, mantenuto vivo dall'azione dei mantici; ma
certo questo metodo non può essere eseguito in tutti i laboratori, e forse non
sarebbe di pratica realizzazione per molte persone.»
L'emblema
ermetico di Notre-Dame, che aveva già attirato l'attenzione del sagace Laborde*
(*De Laborde, Explications de l'Enigme
trouvée en un pilier de l'Eglise deNosire-Dame de Paris par le sieur D.L..
Parigi, 1636), nel XVII secolo, occupa lo spazio mediano del portale, dallo
stilobate all'architrave ed è scolpito minuziosamente sui tre lati del pilastro
del portale. Si tratta d'un'alta e nobile statua di san Marcello, con in capo
la mitra; sopra il suo capo c'è un baldacchino con due torricelle, ma
sprovvisto, secondo noi, di qualsiasi significato segreto. Il vescovo è in
piedi su di un dado oblungo finemente scavato, ornato da quattro colonnine e da
un meraviglioso drago in stile bizantino, il tutto è sostenuto da uno zoccolo
bordato da un fregio e collegato al basamento da una modanatura a gola
rovescia. Del resto solo il dado e lo zoccolo hanno un reale valore ermetico
(tav. XXX).
Sfortunatamente
questo pilastro, cosi magnificamente decorato, è quasi nuovo: solo dodici
lustri ci separano dal suo rifacimento, perché è stato rifatto e... modificato.
Non è nostra
intenzione discutere qui sull'opportunità o meno di queste riparazioni, e non
pretendiamo assolutamente di sostenere che si debba lasciare che la lebbra del
tempo invada uno splendido corpo, senza curare i guasti prodotti; però, nella
nostra posizione di filosofo, non possiamo fare a meno di rammaricarci per la
disinvoltura dimostrata dai restauratori nei riguardi delle creazioni gotiche.
Se era meglio sostituire il vescovo annerito e rifare il basamento ormai in
rovina, sarebbe stata cosa molto facile; bastava copiare il modello,
trascriverlo fedelmente. Poco importava che contenesse o no un significato
recondito: l'imitazione servile l'avrebbe conservato. Si è cercato di far ancora
meglio, e, mentre ci si attenne fedelmente alla fisionomia del santo vescovo e
al bel drago, si decorò invece lo zoccolo di fogliame e di svolazzi romani, al
posto dei bisanti e dei fiori che si vedevano un tempo.
Questa
seconda edizione, riveduta, corretta ed aumentata, è, senza dubbio, più ricca
della precedente, ma il simbolo è stato troncato, la scienza mutilata, la
chiave perduta, l'esoterismo spento. Il tempo corrode, consuma, disgrega,
sbriciola il calcare; la chiarezza viene a mancare, ma il senso rimane.
Sopraggiunge il restauratore, il guaritore delle pietre; con qualche colpo di
scalpello amputa, gratta via, cancella, trasforma, modifica una rovina autentica
in un brillante ma artificiale arcaismo, ferisce e cura, toglie e aggiunge,
sfronda e contraffà in nome dell'Arte, della Forma o della Simmetria, senza
preoccuparsi minimamente dell'idea creatrice. Grazie a questa moderna protesi,
le nostre venerabili dame saranno sempre giovani!
Ahimè!
manomettendo l'involucro si è fatta sfuggire l'anima.
Discepoli di
Ermes, andate alla cattedrale per esaminare il posto e la disposizione del
nuovo pilastro, e dopo seguite il cammino percorso dall'originale. Attraversate
la Senna, entrate nel museo di Cluny ed avrete la soddisfazione di trovarlo
vicino alla scala che porta all'accesso del frigidarium delle Terme di
Giuliano. Qui è approdato questo bel frammento* (* L'itinerario, oggi, non è
più valido; perché, da circa sei anni ormai, il pilastro simbolico, oggetto di
tanta giustificata venerazione, è tornato a Notre-Dame, non lontano dal posto
che fu suo per più di cinquecento anni. Infatti lo si potrà trovare in una
stanza della torre nord, dall'alto soffitto a volta ad archi incrociati; questa
torre sarà, presto o tardi, trasformata in museo ed è orientata in modo tale
che la copia della statua in questione è a sud, sullo stesso livello e dalla
parte opposta della piattaforma del grande organo.
Provvisoriamente,
anche se il visitatore andrà fino al nuovo posto della scultura iniziatica, la
curiosità non sarà soddisfatta tanto facilmente. Ahimè! lo aspetta una
sorpresa, che lo rattristerà subito, si tratta dell'amputazione, estremamente spiacevole,
di quasi tutto il corpo del drago, che adesso è ridotto alla sola parte anteriore
ed alle due zampe.
La mostruosa
bestia, con la grazia d'una grossa lucertola, stringeva l'athanor, lasciandovi
dentro, nelle fiamme, il piccolo re dalla triplice corona, figlio della sua
azione violenta sulla morta adultera. Si può vedere solo il viso del bambino minerale
che sta subendo i «lavaggi ignei» di cui paria Nicolò Flamel. Esso è fasciato e
legato, secondo il costume medioevale, e come si trova ancor oggi nella
figurina di porcellana del piccolo «baigneur» (Bagnante ma nel linguaggio
comune anche bambolotto N.d.T.) che è messo nella focaccia nel giorno della
festa dell'Epifania. (Vedi: Alchimie, op. cit., p. 89).).
Questo enigma
del lavoro alchemico, risolto in modo esatto, — almeno in parte, — da Francois
Cambrici, gli valse la citazione di Champfleury nei suoi Excentriques, e quella di Tcherpakoff nei suoi Fous Littéraires. Avremo anche noi lo stesso onore?
Sullo zoccolo
cubico, lato destro, noterete due bisanti in rilievo,
massici e
circolari; sono le materie o nature
metalliche, — soggetto e solvente, — con le quali si deve iniziare l'Opera. Sul
prospetto principale, queste sostanze, modificate dalle operazioni preliminari,
non sono più rappresentate sotto forma di dischi ma di rose a petali saldati. È
bene ammirare senza riserve l'abilità mediante la quale l'artista ha saputo
interpretare la trasformazione dei prodotti reconditi, liberati dagli accidenti
esterni e dai materiali eterogenei che li avvolgevano nella miniera. Nel lato sinistro,
i bisanti, divenuti ormai rose, hanno la forma di fiori decorativi a petali
saldati, ma col calice apparente. Sebbene siano stati ben corrosi e quasi
cancellati, è ancora facile ritrovare la traccia del disco centrale. Questi
fiori rappresentano sempre gli stessi soggetti ma hanno acquisito altre qualità
ancora; il grafismo del calice indica che le radici metalliche sono state
aperte e sono disposte a manifestare il loro principio seminale. Questa è la
traduzione esoterica dei piccoli motivi ornamentali dello zoccolo. Il dado ci
fornirà la spiegazione complementare.
Le materie
preparate, riunite in un solo amalgama devono subire la sublimazione o ultima
purificazione ignea. In quest'operazione le parti combustibili si distruggono,
le materie terrose perdono la loro coesione e si disgregano, mentre i principii
puri, incombustibili, si elevano sotto una forma assai diversa da quella
assunta dall'amalgama. Si tratta del Sale
dei Filosofi, il Re coronato di gloria, che nasce nel fuoco e deve
rallegrarsi nel successivo matrimonio, affinchè le cose occulte diventino
manifeste, come dice Hermes. Rex ab igne
veniet, ac conjugio gaudebit et occulta patebunt. Di questo re, il dado
mostra solo la testa, emergente dalle fiamme purificatrici. Ma per come si
presenta oggi il bassorilievo non si può essere certi che la fascia frontale
scolpita nel capo del fanciullo rappresenti una corona; potrebbe benissimo trattarsi,
a giudicare dalla forma e dal volume, d'una specie di casco o di cimiero. Ma,
fortunatamente, possediamo il testo di Esprit Gobineau de Montluisant, il cui
libro fu terminato «mercoledì 20 maggio 1640, vigilia della gloriosa Ascensione
de Nostro Salvatore Gesù Cristo»* (* Explication
très curieuse des Enigmes et Figures hiéroglyphiques, Physiques, qui sont au
grand portali de l'Eglise Cathédrale et Méfropolitaine de Notre-Dame de Paris),
e che chiaramente ci fa sapere che il re porta una triplice corona.
Dopo
l'innalzarsi dei principii puri e colorati del composto filosofico, il residuo
è pronto subito per fornire il sale mercuriale,
volatile e fusibile, che è stato spesso chiamato dagli antichi autori : Drago babilonese.
L'artista
creatore del mostro emblematico ha prodotto un vero capolavoro, che sebbene
mutilato, — le penne di sinistra sono spezzate, — resta nondimeno un pezzo
notevole d'arte statuaria. L'animale favoloso emerge dalle fiamme e la sua coda
sembra uscire dall'essere umano del quale, in certo qual modo, avvinghia la
testa. Poi con un movimento di torsione, che lo fa inarcare sull'arco, va a
ghermire l'athanor con i suoi rostri potenti.
Se esaminiamo
la decorazione del dado, noteremo delle scanalature raggruppate, poco scavate,
dalla sommità curva e a base piana.Quelle della parete sinistra sono
accompagnate da un fiore con i quattro petali separati, che rappresentano la
materia universale, quaternaria tra gli elementi
primi, secondo la dottrina d'Aristotele. Assai diffusa nel medioevo.
Proprio al di sotto si trova il duo delle nature
lavorato dall'alchimista, la cui ricomposizione fornisce il Saturno dei Saggi, denominazione che è
l'anagramma di nature* (* In francese l'anagramma tra Saturno e nature è più
evidente N.d.T.). Nell'intercolunnio di fronte si trovano quattro scanalature,
che procedono in modo decrescente, secondo l'obliquità della rampa
fiammeggiante, esse rappresentano il quaternario degli elementi secondi; infine da ogni lato dell'athanor, proprio sotto
gli artigli del drago, le cinque unità della quintessenza, che comprendono i tre principii e le due nature, e
poi il loro totale nel numero di dieci «nel quale tutto finisce e termina».
L.-P. François
Cambrici* (* L.P. Francois Cambrici, Cours
de Philosophie hermétique ou d'Alchimie en dix-neuf lefons. Parigi, Lacour
et Maistrasse, 1843.) pretende che la moltiplicazione dello Zolfo, — bianco o
rosso, — non è indicata nel geroglifico studiato; noi non oseremmo pronunciarci
cosi categoricamente. La moltiplicazione, infatti, può essere realizzata
soltanto grazie all'aiuto del mercurio, che nell'Opera ha il ruolo di paziente,
mediante cotture o fissazioni successive. Dobbiamo, quindi, cercare nel
dragone, immagine del mercurio, il simbolo rappresentativo della nutrizione e
della progressione dello Zolfo o dell'Elisir. Se questo autore, avesse avuto
più cura nell'esaminare i particolari decorativi, avrebbe certo notato:
1. Una banda
longitudinale che parte dalla testa del drago e segue la linea delle vertebre
fino all'estremità della coda;
2. Due bande
analoghe, disposte obliquamente, una su ciascuna ala;
3. Due bande
più larghe, trasversali, che cingono la coda del drago, la prima all'altezza
delle penne, l'altra al di sopra della testa del re. Tutte queste bande sono
ornate da cerchi pieni che si toccano in un punto della loro circonferenza.
Il loro
significato ci sarà dato dai cerchi delle bande caudali: il centro di essi è
nettamente indicato su ciascuno di essi. Gli ermetici sanno che il re dei
metalli è raffigurato dal segno solare, cioè una circonferenza con o senza
punto centrale. Ci sembra dunque che sia legittimo pensare che, se il drago è
coperto a profusione dal simbolo aureo, — ne ha perfino sull'artiglio della
zampa destra, — significa che è capace di trasmutare in quantità; ma questo
potere può essere acquisito solo grazie ad una serie di ulteriori cotture, con
lo Zolfo o Oro filosofico, che costituiscono le cosiddette moltiplicazioni.
Questo è il
significato esoterico, che abbiamo creduto di riconoscere sul bei pilastro
della porta di sant'Anna, e spiegato il più chiaramente possibile. Altri, più
sapienti, daranno forse una interpretazione migliore, perché non pretendiamo
d'imporre a nessuno la tesi qui sviluppata. Ci basterà dire, che, in generale,
essa concorda con quella di Cambrici. Ma, in cambio, non condividiamo il parere
di quest'autore, che ha voluto estendere, senza prove, il simbolismo del dado
alla statua.
Certo è
sempre penoso dover rimproverare un errore lampante, ed ancor più triste
raccogliere alcune affermazioni per distruggerle in blocco. Eppure bisogna
farlo, qualunque sia il nostro rammarico. La scienza che noi studiarne è
altrettanto positiva, reale ed esatta quanto l'ottica, la geometria o la
meccanica; i suoi risultati sono al- trettanto tangibili quanto quelli della
chimica. Se entrano in una certa roporzione nel comportamento e l'orientamento
delle nostre ricerche, dobbiamo però evitare le impennate, subordinandole alla
logica, al ragionamento, e sottomettendole al criterio della esperienza. Ricordiamoci
che sono le truffe di avidi soffiatori, le pratiche insensate dei ciarlatani,
le sciocchezze di scrittori ignoranti e senza scrupolo che hanno gettato il
discredito sulla scienza ermetica. Si deve vedere giustamente e parlare con
precisione. Non una parola non ponderata, non un pensiero che non sia passato
al vaglio del giudizio e della riflessione. L'Alchimia ha bisogno d'essere
epurata; liberiamola dalle macchie di cui talvolta l'hanno insudiciata perfino
i suoi partigiani: non potrà che diventare più robusta e più sana, senza per- dere
niente del suo fascino ne della sua misteriosa attrazione.
François Cambrici, nella trentatreesima pagina
del suo libro scrive cosi: « Da questo mercurio, deriva la Vita rappresentata
dal vescovo che è al di sopra del drago già citato... Questo vescovo porta un dito alla bocca, per dire a quelli che lo
vedono e che hanno compreso ciò che egli rappresenta... tacete, non dite
nulla!...»
II testo è accompagnato da una tavola,
riproduzione d'un disegno assai mal fatto, — e questo non è nulla, — ma
chiaramente truccato, — e questo è ben più grave. San Marcello è raffigurato
mentre tiene un pastorale corto come l'asta d'una banderuola d'un guardiano di
passaggio a livello; con la testa coperta da una mitra decorata di croci, e,
superbo anacronismo, l'allievo della Prudenza è barbuto! Particolare pungente:
nel disegno di faccia, il drago ha il muso di profilo e rode il piede del
povero vescovo, che, del resto, sembra curarsene assai poco. Infatti, calmo e
sorridente si preoccupa di chiudere le labbra con l'indice nel gesto che
comanda il silenzio.
La verifica è
facile, perché possediamo l'opera originale e l'imbroglio salta immediatamente
all'occhio. Il nostro santo è, secondo il costume medioevale, assolutamente glabro;
la sua mitra, molto semplice, non mostra alcun ornamento, il pastorale tenuto
dalla mano sinistra, è appoggiato, dalla parte inferiore, sul muso del drago.
Quan- to al famoso gesto che imita quello dei personaggi del Mutus Liber e di Arpocrate, è nato solo
dall'eccessiva fantasia di Cambrici. Infatti, san Marcello è rappresentato benedicente,
in uno atteggiamento pieno di nobiltà, con la fronte inclinata, l'avambraccio
piegato, la mano all'altezza della spalla, l'indice e il medio alzati.
È assai
difficile credere che due osservatori abbiano potuto essere vittime della
stessa illusione. Questa fantasia deriva dall'artista o fu imposta dal testo?
La descrizione ed il disegno hanno una tale concordanza tra loro che ci si
permetterà di non avere troppa fiducia nelle qualità d'osservazione descritte
in quest'altro brano dello stesso autore:
«Passando un
giorno davanti alla chiesa di Notre-Dame de Paris, ho esaminato con molta attenzione le belle sculture
con cui sono decorate le tre porte e ho notato in una di queste tre porte un
geroglifico assai bello, che non avevo mai osservato, e per parecchi giorni di seguito sono andato ad osservarlo per
riuscire a descrivere dettagliatamente tutto ciò che esso rappresentava; alla
fine ci riuscii. Leggendo ciò che segue il lettore se ne convincerà, e sarà
meglio ancora se andrà lui stesso sul posto.»
Quest'affermazione
non manca certo d'ardire e d'impudenza. Se il lettore di Cambrici segue
l'invito non troverà, sul pilastro di mezzo del portale di sant'Anna, che il
leggendario esoterismo di san Marcello. Vedrà il vescovo che uccide il drago
toccandolo col suo pastorale, come riporta la tradizione. Se poi, in più, egli
simboleggia la vita della materia, è un'opinione personale dell'autore, che è
libero di esprimerla; ma che la statua impersonifichi il tacere di Zoroastro, non è vero e non lo fu mai.
VIII
Costruite dai
Frimasons* (* Dall'inglese free-mason
(pietra libera e, per estensione, libero muratore) diventato in francese franc-maçon ed in italiano frammassone N.d.T.) per assicurare la
trasmissione dei simboli della dottrina ermetica, le nostre grandi cattedrali
ebbero, al loro apparire, una grande influenza su numerosi edifici più modesti
dell'architettura civile o religiosa.
Flamel si
compiaceva di rivestire d'emblemi e di geroglifici i numerosi edifìci che fece
costruire qua e là. L'abate Villain ci informa che il piccolo portale della
chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie, fatto costruire dall'adepto nel 1389, era
coperto di figure. «Sullo stipite occidentale del portale, ci dice, si vede la
statua di un piccolo angelo che tiene tra le mani un disco; Flamel aveva fatto
intarsiare un dischetto di marmo nero con un filo di oro purissimo che formava
una cro- ce* (*Abate Villain, Histoire critique de Nicolas Flamel. Parigi,
Desprez, 1761.)...» I poveri dovevano alla sua generosità anche due case
ch'egli fece costruire per loro in «rue du Cimetière-de-Saint-Nicolas-des- Champs»,
la prima nel 1407 e la seconda nel 1410. Questi edifici erano ornati, ci
assicura Salmon, da «una gran quantità di figure incise nella pietra, con una N
ed una F gotiche da ogni lato». La cappella dell'ospedale Saint-Gervais,
ricostruita a sue spese, non era da meno delle altre fondazioni.» La facciata e
il portale della nuova cappella, scrive Albert Poisson* (* Albert Poisson, Histoire dell'Alchimie. Nicolas Flamel. Parigi, Chacornac, 1893),
erano coperti di figure e di leggende secondo il solito modo di Flamel.» Il
portale di Sainte-Geneviève-des-Ardents, situato in rue de la Tixeranderie,
conservò il suo interessante simbolismo fino alla metà del XVIII secolo; a
quell'epoca la chiesa fu trasformata in abitazione e gli ornamenti della
facciata furono distrutti. Flamel fece innalzare anche due archi decorativi nel
cimitero degli Innocenti, uno nel 1389, l'altro nel 1407. Poisson c'informa che
sul primo, tra le altre targhe geroglifiche, si notava uno scudetto che l'Adepto
«sembra aver imitato da un altro attribuito a san Tommaso d'Aquino». Il celebre
occultista aggiunge che lo stesso scudetto è raffigurato alla fine dell’Harmonie Chymique di Lagneau. Ed ecco,
riportata qui, la descrizione ch'egli ci fornisce:
« Lo scudetto è diviso in quattro parti da una
croce, questa ha nel suo centro una corona di spine che racchiudono un cuore
sanguinante da cui spunta una canna. In uno dei quarti si vede scritto IEVE in
caratteri ebraici, in mezzo ad una miriade di raggi luminosi e sopra ad una
nuvola nera; nel secondo quarto, c'è una corona; nel terzo, la terra coperta da
un'abbondante messe; il quarto reca dei globi di fuoco.»
Questa descrizione, conforme all'incisione di
Lagneau, ci permette di concludere che costui ha fatto copiare la sua figura
dall'arco del cimitero. E non è cosa impossibile, perché delle targhe originali
ne restavano ancora tre al tempo di Gohorry, — cioè verso il 1572, mentre la Harmonie Chymique fu stampata da Claude
Morel nel 1601. Però, sarebbe stato meglio rivolgersi allo scudetto tipo, assai
diverso da quello di Flamel, molto meno oscuro. Esso esisteva ancora all'epoca
della Rivoluzione in una vetrata che illuminava la cappella di san Tommaso
d'Aquino, nel convento dei Giacobini. La chiesa dei Domenicani, — che vi
abitarono e vi si erano stabiliti intorno al 1217, — fu fondata da Luigi IX.
Essa era sita in rue Saint-Jacques e conosciuta col nome di Saint-Jacques le
Majeur. Il libro Curiositez de Paris,
apparso nel 1716 edito da Saugrain il vecchio, aggiunge che a fianco alla
chiesa c'erano le scuole del Dottore
angelico.
Lo scudetto della vetrata, detto di san
Tommaso d'Aquino, fucopiato con esattezza e dipinto nel 1787 da un ermetista
chiamatoChaudet. Questo dipinto ci permette di descriverlo (tav. XXXI).
Lo scudo
francese, inquartato, è collegato alla sommità ad un segmento circolare che lo
domina. Su questo pezzo supplementare è raffigurato un matraccio d'oro
capovolto, circondato da una corona di spine verdi su campitura color sabbia.
La croce d'oro ha tre globi azzurri: sul braccio destro, sul sinistro e sulla
parte bassa del braccio verticale; in più ha, al centro, un cuore rosso che
porta un ramoscello verde. Su questo cuore cadono e si fissano alcune gocce
d'argento che cadono dal matraccio. Al quarto in alto a destra, bipartito in oro,
con tre stelle di porpora, e in azzurro, con sette raggi d'oro, è opposto, a
sinistra in basso, un campo color sabbia dalle spighe d'oro su un fondo color
tanè. Nel quarto in alto a sinistra, c'è una nube violetta su campitura
argento, con tre frecce pure d'argento, pennate d'oro, che sfrecciano verso
l'abisso. In basso a destra, tre serpenti d'argento su campitura verde.
Questo
bell'emblema è tanto più importante per noi in quanto ci svela i segreti
relativi all'estrazione del mercurio ed alla sua congiunzione con lo zolfo,
punti oscuri della pratica, sui quali tutti gli antichi autori hanno preferito
mantenere un religioso silenzio.
Anche la
Sainte-Chapelle, capolavoro di Pierre de Montereau, meravigliosa urna di pietra,
costruita, tra il 1245 ed il 1248, per ricevere le reliquie della Passione,
possedeva un insieme di figure alchemiche assai notevole. Anche se ci dispiace
vivamente che il portale originale sia stato restaurato, portale in cui i
Parigini del 1830 potevano, insieme con Victor Hugo, ammirare «due angeli, di
cui uno tiene una mano dentro un vaso mentre l'altro la tiene dentro una nube»,
abbiamo la gioia, ancor oggi e malgrado tutto, di possedere intatte le vetrate
del lato sud dello splendido edificio. Sembra quasi impossibile trovare da
qualche altra parte una collezione migliore, che si riferisca all'esoterismo
alchemico, di quella della Sainte-Chapelle. Iniziare foglia dopo foglia, la
descrizione d'una tale foresta di vetro, sarebbe un lavoro immenso capace di
fornire materiale per parecchi volumi. Ci limiteremo dunque a mostrare un
esempio tratto dalla quinta finestra, sotto la prima crociera, e che ha per
argomento la Strage degli Innocenti, di cui più sopra abbiamo descritto il
significato (tav. XXXII). Non raccomanderemo mai abbastanza, agli amanti della
nostra vecchia scienza, ed ai curiosi delle cose occulte, lo studio delle
vetrate simboliche della cappella alta; essi vi troveranno abbastanza soggetti
da spigolare, ed altrettanti ne troveranno nel grande rosone, incomparabile creazione
di colori e d'armonia.
AMIENS
Come Parigi, anche Amiens ci offre una
notevole raccolta di bassorilievi ermetici. Il fatto singolare, e che conviene
notare, è che il portale centrale di Notre-Dame d'Amiens, — portale del
Salvatore, — è la replica quasi fedele non solo dei motivi che decorano il
portale di Parigi, ma anche dell'ordine di successione. Le differenze sono in
piccoli particolari; a Parigi i personaggi tengono dei dischi, qui tengono degli
scudi; l'emblema del mercurio è presentato, ad Amiens, da una donna, a Parigi
da un uomo. Su ambedue gli edifici, gli stessi simboli, gli stessi attributi,
movimenti e costumi simili. Nessun dubbio che l'opera ermetica di Guillaume le
Parisien abbia esercitato una reale influenza sulla decorazione del gran
portale d'Amiens.
Insomma, il capolavoro piccardo, magnifico tra
tutti, resta uno dei più puri documenti che il medioevo ci abbia lasciato. Del
resto, la sua conservazione permise ai restauratori di rispettare la maggior parte
dei motivi decorativi; e quindi, questo ammirevole tempio, dovuto al genio di
Robert de Luzarches e di Thomas e Renault de Cormont, rimane ancor oggi nel suo
originale splendore. Tra le allegorie proprie allo stile di Amiens citeremo in
primo luogo l'ingegnosa interpretazione del fuoco
di ruota. Il filosofo, seduto ed appoggiato con il gomito al ginocchio
destro, sembra meditare o vegliare (tav. XXXIII).
Questo quadrifoglio, secondo noi assai
caratteristico, è stato, però, interpretato in tutt'altra maniera da alcuni
autori. Jourdain e Du val, Ruskin (Thè
Bible of Amiens), l'abate Roze e, dopo di loro, Georges Durand* (* G.
Durand, Monographie de l'Eglise
cathédrale d'Amiens Parigi, A Picard, 1901.) hanno trovato un significato
riferendosi alla profezia d'Ezechiele, il quale, dice G. Durand, «vide quattro
animali alati, come li vedrà, dopo, san Giovanni, e poi due ruote una dentro
l'altra. E qui si è voluto raffigurare proprio la visione delle ruote.
L'artista, ingegnosamente, prendendo alla lettera il testo, ha ridotto la
visione alla sua più semplice espressione. Il profeta è seduto su di una roccia
e sembra dormire appoggiato al ginocchio destro. Davanti a lui appa- iono due
ruote di carro, e questo è tutto.»
Quest'interpretazione contiene due errori. Il
primo errore testimonia uno studio incompleto della tecnica tradizionale e
delle formule che i latomi* (*
Scalpellini N.d.T.) seguivano nell'esecuzione dei loro simboli. Il secondo, più
grave, dimostra una certa mancanza di osservazione.
Infatti, i nostri scultori d'immagini
religiose seguivano la prassi di isolare, o, come minimo, di sottolineare gli
attributi soprannaturali per mezzo d'un cordone di nubi. Ne abbiamo una prova
evidente sulla facciata di tre contrafforti del portico; ma qui non c'è niente
di simile. D'altra parte il nostro personaggio ha gli occhi aperti; quindi non
è assolutamente addormentato ma sembra che stia vegliando mentre accanto a lui
si sta effettuando la lenta azione del fuoco di ruota. Per di più, è
universalmente risaputo che, in tutte le scene che raffigurano, in stile
gotico, una apparizione, l'illuminato è rappresentato mentre guarda il
fenomeno; il suo atteggiamento, la sua espressione dimostrano invariabilmente
la sorpresa o l'estasi, l'ansietà o la beatitudine. Non è invece ciò che accade
nel soggetto di cui ci stiamo occupando. Le due ruote sono, e non possono
essere nient'altro, che un'immagine, di significato oscuro per il profano,
messa a bella posta col proposito di velare una cosa ormai nota, sia dall'iniziato
che dal nostro personaggio. E cosi noi lo possiamo vedere mentre è
assolutamente distolto da una qualsiasi preoccupazione di ogni tipo. Egli
veglia e sorveglia, paziente ma un po' stanco. Terminate le gravose fatiche d'Ercole, il suo lavoro si riduce
al gioco da bambini di cui parlano i testi, cioè a sorvegliare il fuoco, cosa
che anche una donna che sta filando può facilmente fare e farlo bene.
Quanto alla
doppia immagine del geroglifico, dobbiamo interpretarla come il segno di due
svolgimenti che devono agire successivamente sull'amalgama per assicurargli un
primo grado di perfezione. A meno che non si preferisca vedervi
l'interpretazione delle due nature nella conversione,
anch'essa compiuta con una cottura delicata e regolare. Pernety adotta quest'ultima
tesi.
Infatti, la
cottura lineare e continua esige la doppia rotazione d'una stessa ruota,
movimento impossibile a rendere nella pietra e che quindi giustifica la
necessità di due ruote incastrate fino a formarne una sola. La prima ruota
corrisponde alla fase umida
dell'operazione, — chiamata eliquazione*
(* Tale termine deriva da Elixir, quindi elixation significa fare l'elixir
N.d.T.), — durante la quale il composto resta fuso, fin quando non si forma una
leggera pellicola che aumentando pian piano di spessore, va fino in profondità.
S'inizia allora il secondo periodo, caratterizzato dalla secchezza, — o assazione, — mediante un secondo giro di
ruota; questo periodo si compie e si termina quando il contenuto dell'uovo calcinato appare granuloso o
polverulento, sotto forma di piccoli cristalli, o di sabbia o di cenere.
L'anonimo
commentatore d'un'opera classica* (* La
Lumière sortant par soy-mesme des Ténèbres. Parigi, d'Houry, 1687, cap. III,
p. 30), dice, a proposito di quest'operazione che è veramente il sigillo della
Grande Opera, che «il filosofo fa cuocere, con un calore dolce e solare, ed in
un unico vaso, un unico vapore che pian piano s'inspessisce.» Ma quale può
essere la temperatura del fuoco esteriore, conveniente a questa cottura? Secondo
gli autori moderni, all'inizio il calore non dovreb- be superare la temperatura
del corpo umano. Albert Poisson parte da 50° con un aumento progressivo fino a
circa 300° centigradi. Filalete, nelle sue Regole* (* Règles du Philalèthe polir se conduire dans l'Oeuvre hermétique,
sta in Histoie de la Philosophie
hermétique, di Lenglet-Dufresnoy. Parigi, Coustelier,) afferma che « si
deve considerare come calore temperato
quel grado di temperatura, che potrà essere uguale a quello del piombo (327°) o
dello stagno fusi (232°) ed anche più alto, cioè tale che i vasi possano
sopportarlo senza rompersi. Da qui si co mincerà ad aumentare il calore per
giungere a quello conveniente al regno nel quale la natura vi ha lasciato.»
Nella sua quindicesima regola, Filalete ritorna ancora su questo punto tanto
importante; dopo aver fatto notare che l'artista deve operare su dei corpi
minerali e non su sostanze organiche, cosi dice:
«Bisogna che l'acqua del nostro lago giunga
all'ebollizione con le ceneri dell'albero di Ermes; io vi esorto a far bollire giorno e notte senza sosta, di
modo che la natura celeste possa salire e quella terrestre discendere, tra le
attività del nostro mare tempestoso. Perché, ve lo assicuro, se non si fa bollire, non si può chiamare il nostro
lavoro cottura ma soltanto digestione.»
Segnaleremo
anche una piccola decorazione, posta accanto al fuoco di ruota e scolpita alla destra dello stesso portico e che G.
Durand ritiene che sia una replica del settimo medaglione di Parigi. Ecco come
egli ce lo presenta :
«I signori
Jourdain e Duval avevano chiamato Incostanza il vizio opposto alla
Perseveranza; ma ci sembra che la parola Aposta sia, proposta dall'abate Roze
sia più adatta al soggetto rappresentato. Si tratta d'un personaggio dal capo
scoperto, imberbe e con la tonsura, quindi chierico o monaco, che indossa un
vestito, munito di cappuccio, lungo fino a mezza gamba; questo vestito non è
diverso da quello indossato dal chierico del gruppo della Collera tranne che per
la cintura con cui questo è cinto. Gettando accanto a sé le brache e le
calzature, una specie di stivaletti, sembra che si stia allontanando da una
bella piccola chiesa, che si vede sullo sfondo, dalle finestre lunghe e
strette, dal campanile cilindrico e in aggetto (tav. XXXIV.» In una nota,
Durand aggiunge: «Sul gran portale di Notre-Dame de Paris, l'Apostata lascia i
suoi vestiti nella chiesa stessa; e sulla vetrata della stessa cattedrale, è
raffigurato fuori dalla chiesa nell'atteggiamento di chi fugge. A Chartres è
completamente spogliato e ha indosso solo una camicia. Ruskin nota che il pazzo
infedele è sempre raffigurato a piedi nudi, nelle miniature del XII e XIII
secolo.»
Da parte
nostra non troviamo alcuna correlazione tra il soggetto di Parigi e quello
d'Amiens. Mentre quello simboleggia l'inizio dell'Opera, questo, al contrario,
ne indica la fine. La chiesa è piuttosto un athanor, ed il suo campanile,
innalzato a dispetto delle più elementari regole d'architettura, è il forno
segreto che contiene l'uovo filosofico. Questo forno ha delle aperture
attraverso le quali l'artigiano osserva le fasi del lavoro. Inoltre è stato
dimenticato un particolare importante e molto caratteristico: intendiamo cioè
quell'arco del basamento che appare vuoto. Ora, è difficile ammettere che una chiesa
possa essere costruita su volte apparenti tanto da sembrare che poggi su
quattro piedi. Ed è tanto più azzardato scambiare per un vestito la cosa
informe e floscia che l'artista indica col dito. Tutti questi motivi ci hanno
indotto a pensare che il motivo di Amiens facesse parte del simbolismo ermetico
e che rappresentasse la cottura e l'apparecchio ad hoc. L'alchimista che abbia tolto le calzature indica abbastanza
bene fino a che punto si deve essere prudenti e quanto ci si deve preoccupare
del silenzio in quest'operazione segreta. Il vestito leggero, poi, indossato
dall'artigiano nel bassorilievo di Chartres, si giustifica col calore emanato
dal forno. Infatti al quarto stadio di fuoco, seguendo la via secca, è
necessario mantenere una temperatura vicina ai 1200°, temperatura necessaria
anche nella proiezione. Anche i moderni operai dell'industria metallurgica sono
vestiti allo stesso modo sommario del soffiatore di Chartres. Saremmo senz'altro
felici di conoscere la ragione per cui gli apostati proverebbero il bisogno di
spogliarsi mentre s'allontanano dalla chiesa. È proprio questa spiegazione che
avremmo voluto ci fosse data, a sostegno e spiegazione della tesi proposta
dagli autori già citati.
Abbiamo visto
che anche a Notre-Dame de Paris l'athanor assume l'aspetto d'una torricella,
innalzata su delle volte. È chiaro che non lo si poteva riprodurre,
esotericamente, eguale a quello esistente in laboratorio. Ci si limitò, perciò,
a dargli una forma architettonica, senza però abolire tutte le caratteristiche,
quelle cioè capaci di svelare la sua vera destinazione. Si riconoscono le parti
costituenti il forno alchemico: ceneriera, torre e calotta. Del resto quelli che
hanno consultato le stampe antiche, — ed in particolare le tavole della Pyrotechnie, inserite da Jean Liébaut
nel suo trattato* (* Vedi Jean Liébaut, Quatre
Livres des Secrets de Médecine et de la Philosophie Chimique, Parigi,
Jacques du Puys, 1579, pp. 17a e 19°.), — non si potranno sbagliare. I forni
sono raffigurati simili a dei torrioni con i loro spalti, i loro merli, le loro
feritoie. Alcuni insiemi di questi strumenti finiscono col prendere l'aspetto
di edifici o di piccole fortezze dalle quali sporgono i colli degli alambicchi
e delle storte.
In un quadrifoglio incastrato nello stipite destro
del gran portico, ritroviamo l'allegoria del gallo e della volpe, cara
a Basilio Valentino. Il gallo è appollaiato su di un ramo di quercia e la volpe cerca di raggiungerlo
(tav. XXXV). I profani vi vedono l'argomento di una favola popolare nel medioevo,
che sarebbe, secondo Jourdain e Duval, l'antenata di quella del corvo e della
volpe. «Ma, aggiunge G. Durand, non si vedono i cani, che sono il completamento
della favola.» Questo particolare indicativo non sembra che abbia risvegliato l'attenzione
degli autori sul significato occulto del simbolo. Eppure i nostri avi,
traduttori esatti e meticolosi, non avrebbero certo trala- sciato di
raffigurare questi altri protagonisti se si fosse trattato d'una scena nata da
una favola.
Forse sarebbe
utile qui ampliare il significato dell'immagine, favorendo cosi i figli della
scienza, nostri fratelli, più di quanto non abbiamo fatto per lo stesso emblema
scolpito nel portico di Parigi. Senza dubbio spiegheremo più in là la stretta
correlazione che c'è tra il gallo e
la quercia, relazione che ha la sua
analogia nel legame familiare; perché il figlio è unito al proprio padre come
il gallo lo è all'albero. Per il momento, diremo soltanto che il gallo e la volpe non sono altro che lo stesso geroglifico che abbraccia i due
stati fisici distinti della stessa materia. Quello che appare per prima è il
gallo, o parte volatile, quindi la
parte vivente, attiva, piena di movimento, estratta dal soggetto, che ha per
emblema la quercia. Si tratta della nostra
famosa sorgente, la cui acqua scorre alla base dell'albero sacro, tanto
venerato dai Druidi, questa sorgente è stata chiamata dagli antichi filosofi Mercurio, sebbene essa non abbia,
esteriormente, niente in comune con il volgare argento vivo. Perché l'acqua di
cui abbiamo bisogno è secca, non
bagna le mani e sgorga dalla roccia sotto i colpi della verga di Aaron. Questo
è il significato alchemico del gallo, emblema di Mercurio presso i pagani e
della resurrezione presso i cristiani. Questo gallo, sebbene volatile, può diventare la Fenice. Ma, prima, deve assumere lo stato di fissità provvisoria,
indicata dal simbolo della volpe, la
nostra volpe ermetica. Prima
d'iniziare la pratica, è importante sapere che il mercurio contiene in sé tutto
ciò che è necessario alla lavorazione. «Sia benedetto l'Altissimo, esclama
Geber, per aver creato questo Mercurio dotandolo d'una natura tale che a lei
nulla resiste! Perché, senza d'esso gli alchimisti avrebbero un bell'affannarsi,
tutto il loro lavoro diventerebbe inutile.» Ed è l'unica materia di cui abbiamo
bisogno. Infatti, quest'acqua secca,
sebbene interamente volatile, può, se si scopre il modo per farla rimanere più a lungo sul fuoco, diventare abbastanza
fissa da resistere a quel grado di calore che, invece normalmente, sarebbe
stato sufficiente a farla evaporare tutta. Essa, allora, cambia simbolo, e la
sua qualità di pesante le fa assumere, per rappresentare la nuova natura,
l'emblema della volpe. L'acqua è
diventata terra e il mercurio zolfo. Però questa terra, malgrado il bei
colore acquistato con il lungo contatto col fuoco, non servirebbe a niente se
restasse nella sua forma secca; un vecchio assioma c'insegna che ogni tintura secca, nella sua siccità, è inutile;
si deve quindi disciogliere questa terra o questo sale nella stessa acqua dalla
quale è nato, o, ciò che è lo stesso, nel
proprio sangue, perché diventi nuovamente volatile, cosicché la volpe riprenda la struttura, le ali e la
coda del gallo. Con un'operazione
simile alla precedente, l'amalgama verrà nuovamente coagulato, lotterà ancora contro
la tirannia del fuoco, ma questa volta nella fusione e non più a causa della
propria qualità secca. Cosi nascerà la prima pietra, ne completamente fissa ne
completamente volatile epperò abbastanza resistente al fuoco, assai penetrante
e facilmente fusibile, proprietà, queste, che dovrete aumentare per mezzo d'una
terza ripetizione della stessa
manipolazione. Allora il gallo,
attributo di san Pietro, pietra vera e fluente sulla quale riposa l'edificio
cristiano, il gallo, dunque, avrà cantato tre volte. Perché è proprio
lui, il primo Apostolo, che de- tiene le due chiavi incrociate della soluzione
e della coagulazione; è lui il simbolo della pietra volatile, resa fissa e
densa dal fuoco, che la fa precipitare. San Pietro, nessuno l'ignora, fu
crocifisso a testa in giù...
Segnaleremo
ora due bassorilievi assai interessanti, posti tra le belle decorazioni del
portale nord, o di Saint-Firmin, occupato quasi interamente dallo zodiaco e
dalle corrispondenti scene campestri o familiari. Il primo bassorilievo
rappresenta una cittadella, la cui porta, massiccia e sprangata, è
fiancheggiata da torri merlate ira le quali si trovano due piani di
costruzioni; il basamento è ornato da uno spiraglio munito di grata.
È forse il
simbolo dell'esoterismo filosofico, sociale, morale e religioso che viene
svelato e trattato negli altri centoquindici quadrifogli? O forse dovremmo
vedere in questo soggetto del 1225, la visualiz- zazione dell'idea della Fortezza alchemica, idea ripresa e
modificata da Khunrath nel 1609? Si tratta forse del Palazzo, misterioso e sbarrato, del re della nostra Arte, e del
quale parlano Basilio Valentino e Filalete? Comunque stiano le cose, si tratti
di una cittadella o d'una dimora regale, l'edifìcio, d'aspetto imponente e
dissuasivo, da una reale impressione di forza e d'inespugnabilità. Costruito
per conservare qualche tesoro o per raccogliere qualche importante segreto, ci
appare cosi impenetrabile che solo possedendo la chiave delle poderose
serrature, che lo preservano da ogni effrazione, si può pensare di entrarvi. Ha
contemporaneamente l'aspetto di prigione e di caverna e dall'uscio promana
qualche cosa di sinistro, di terribile che fa pensare all'ingresso del Tartaro:
Lasciate
ogni speranza voi ch'entrate.
Il secondo
geroglifico, posto immediatamente al di sotto del precedente, ci mostra degli
alberi morti, dai rami nodosi, torti ed avviticchiati tra loro, sotto un
firmamento consunto, ma in cui si possono ancora distinguere le immagini del
sole, della luna, e di alcune stelle (tav. XXXVI).
Questo
soggetto si riferisce alle materie prime della nostra Arte, pianeti metallici,
di cui i Filosofi dicono che la morte è stata causata dal fuoco, e l'inerzia
dalla fusione alla quale sono stati sottoposti, essi sono ormai privi di potere
vegetativo, come lo sono gli alberi durante l'inverno.
Per questa
ragione i Maestri ci hanno tante volte raccomandato di rincrudire i metalli,
fornendo loro, con la forma fluida, l'agente specifico ch'essi hanno perduto
nella riduzione metallurgica. Ma dove si può trovare questo agente? È il grande
mistero che più volte abbiamo avvicinato nel corso di questa ricerca,
accostandoci a lui qua e là secondo i vari emblemi affinchè solo il ricercatore
perspicace possa riconoscere le qualità ed identificarne la sostanza. Non
abbiamo voluto seguire il metodo antico, secondo il quale si forniva
un'indicazione esatta, esprimendola con una parabola, ma accompagnata da una o
parecchie aggiunte speciose o falsificate, allo scopo di sviare il lettore
incapace di separare il grano buono dal loglio. Certo questo lavoro può essere
discusso e criticato, poiché è più difficile di quanto si creda a prima vista;
ma non pensiamo che ci si potrebbe accusare d'aver scritto una sola menzogna.
Dice il proverbio che non tutte le verità si possono dire; noi crediamo, a
scapito del proverbio, che si può farle capire servendosi di qualche
sottigliezza della lingua. «La nostra Arte è interamente cabalistica» diceva un tempo Artephius; infatti la cabala ci è
stata sempre di grande aiuto. Essa ci ha permesso, senza truccare la verità,
senza snaturare l'espressione, senza falsificare la Scienza e senza essere
spergiuri, di dire molte cose che sarebbero inutilmente cercate nei libri dei
nostri predecessori. Talvolta davanti all'impossibilità, nella quale ci
troviamo, di spingerci più in là senza violare il nostro giuramento, abbiamo
preferito mantenere il silenzio ed il mutismo anziché fare allusioni non vere o
abbandonarci ad un eccesso di confidenza.
Anche qui,
davanti al Segreto dei Segreti, davanti
a quel Verbum dimissum già
menzionato, potremmo aggiungere soltanto che esso fu confidato da Gesù ai suoi
Apostoli, secondo le testimonianze di san Paolo* (* Saint Paul, Epìtre aux Colossiens, cap. I, vv. 25 e
26.):
«Io sono stato fatto ministro della chiesa per
volontà di Dio, il quale mi ha inviato a voi per compiere la SUA PAROLA. Cioè
il SEGRETO che è rimasto nascosto sempre ed in ogni età, ma che ora Egli rivela a
coloro che giudica degni.» Cosa possiamo dire, se non riportare la
testimonianza dei grandi maestri che, anch'essi, hanno tentato di spiegarlo? «Il
Caos metallico prodotto dalla natura
contiene in sé tutti i metalli ma non è un metallo. Contiene oro, argento e
mercurio, ep- pure non è oro ne argento ne mercurio* (* Le Psautier d'Hermophile, sta nei Traités de la Transmutation des
Metaux. Manoscritto anonimo del XVIII secolo, strofa XXV.)». Questo testo è
chiaro; ma se preferite il linguaggio simbolico ecco un esempio tratto da
Haymon* (*Haymon, Epistola de Lapidibus
Philosophicis. Trattato 192, t. VI del Theatrum Chemicum. Argentorati,
1613.) che ci dice:
«Per ottenere
il primo agente, si deve andare nella parte po steriore del mondo, là dove si
sente brontolare il tuono, soffiare il vento, cadere la grandine e la pioggia;
là si potrà trovare la cosa se la si cerca.»
Tutte le descrizioni che ci hanno lasciato i
Filosofi, circa il loro soggetto, o
materia prima che contiene l'agente indispensabile, sono molto confuse ed assai
misteriose. Eccone qualcuna scelta tra le migliori.
L'autore del
commento sulla Lumière sortant des
Ténèbres, scrive a pag. 108: «L'essenza nella quale si trova lo spirito che noi cerchiamo è innestata ed
impressa in esso, anche se con un aspetto e delle caratteristiche imperfette;
la stessa cosa è detta da Ripleus Anglois all'inizio delle sue Douze Portes; e Aegidius de Vadis, nel
suo Dialogue de la Nature, mostra
chiaramente e come se fosse inciso in lettere d'oro che in questo mondo è rimasta una porzione di questo Caos primitivo, nota ma disprezzata da
tutti, e che è venduta pubblicamente.» Lo stesso autore dice ancora, a pag.
263, che « questo soggetto si trova in
parecchi luoghi ed in ognuno dei tre regni; ma se consideriamo le possibilità
della natura è certo che la sola natura
metallica deve essere aiutata dalla natura e con la natura; quindi dobbiamo
cercare il soggetto, adatto alla
nostra arte, soltanto nel regno minerale,
nel quale risiede lo sperma metallico.»
A sua volta
Nicolas Valois* (* Oeuvres de N. Grosparmy et Nicolas Valois, ms. già citato,
p. 140.) ci dice: «Esiste una pietra dalle grandi virtù, che è chiamata pietra
ma non è una pietra, è minerale vegetale e minerale, si trova in tutti i luoghi
ed in ogni tempo, presso qualsiasi persona.»
Anche Flamel*
(* Nicolas Flamel, Originai du Désir
dèstre, o Thésor de Philosophie,
Parigi, Hulpeau, 1629, p. 144.) scrive: «C'è una pietra occulta, nascosta e
sepolta profondamente sotto una sorgente, essa è vile, povera e senza nessun
valore; ed è coperta d'escrementi e di sterco; ad essa, sebbene sia sempre la
stessa, vengono dati parecchi nomi diversi. Il Saggio Morien dice che questa
pietra, che non è pietra, è animata perché ha la virtù di procreare e di
generare. Questa pietra è tenera, ed ha la sua origine in Saturno o in Marte,
Sole e Venere; e se essa è Marte, Sole e Venere... »
Le Breton* (*
Le Breton, Clefs de la Philosophie
Spagyrique. Parigi, Jombert, 1722, p. 240.) dice: «C'è un minerale, noto ai
veri Sapienti, che nei loro scritti lo nascondono sotto diversi nomi, esso
contiene abbondantemente il fisso e il volatile.»
Un anonimo*
(* La Clef du Cabinet hermétique, ms.
già citato, p. 10.) scrive: «I Filosofi hanno avuto ben ragione di nascondere
questo mistero agli occhi di coloro che apprezzano le cose soltanto per l’uso
ch'essi ne fanno; perché se costoro conoscessero, o se fosse loro apertamente
svelata la Materia, che Dio ha voluto nascondere nelle cose che a loro sembrano
utili, essi non la stimerebbero più.» Questo brano è analogo ad un altro,
tratto dall’Imitation* (* Imitatìon de Jésus-Christ, libro II,
cap. 1, v. 6.) con il quale chiuderemo la raccolta di queste citazioni astruse:
«Colui che stima le cose per ciò ch'esse valgono, e non giudica secondo il
merito o la stima degli uomini, costui possiede la vera Saggezza.»
Torniamo alla
facciata d'Amiens.
L'anonimo
maestro che scolpì i medaglioni del portico della Vergine Madre, ha
interpretato in maniera assai curiosa, la condensazione dello spirito
universale; un Adepto contempla il flusso di rugiada celeste che cade su di una massa informe, scambiata da
molti autori per un vello. Senza infirmare quest'opinione, è altrettanto
verosimile interpretare quella forma come quella d'un corpo diverso, come il
minerale indicato col nome di Magnesia
o di Calamità filosofica. Si può notare
che quest'acqua cade soltanto sul soggetto considerato, cosa, questa, che
conferma la considerazione che questo corpo nasconda in sé una virtù attrattiva, che sarebbe certo
assai importante cercare distabilire (tav. XXXVII).
Crediamo che
sia questo il luogo per correggere alcuni errori commessi a proposito d'un
vegetale simbolico, che, preso alla lettera da alcuni soffiatori ignoranti,
contribuì grandemente a gettare il discredito sull'alchimia ed il ridicolo sui
suoi partigiani. Vogliamo parlare del Nostoc.
Questa pianta è un criptogamo, nota a tutti i contadini, la si trova
dappertutto, in campagna, sia sull'erba, sia sul terreno umido, nei campi,
lungo i sentieri o ai margini dei boschi. In primavera, di buon mattino, se ne
trovano di voluminose, gonfie di rugiada notturna. Gelatinose, e tremolanti, —
da cui deriva il loro nome di tremelle,
— sono per lo più verdastre e si seccano cosi rapidamente sotto l'azione dei
raggi solari, che dopo qualche ora è impossibile ritrovarne le tracce sul posto
stesso su cui poche ore prima erano sparse. La combinazione di tutti questi
caratteri differenti, — improvvisa apparizione, assorbimento d'acqua e
rigonfiamento, colore verde, consistenza molle e scivolosa, — ha permesso ai
Filosofi di prendere quest'alga come segno geroglifico della loro materia. Ed è
certo un ammasso di questo tipo, simbolo della Magnesia minerale dei Saggi, che nel quadrifoglio di Amiens è
scolpito mentre assorte la rugiada celeste. Tralasceremo i numerosi nomi dati
al nostoc e che nelle intenzioni dei Maestri indicavano solo il loro principio
minerale: Arca celeste, Sputo di Luna,
Burro di terra, Grasso di rugiada, Vetriolo vegetale, Flos Coeli, ecc. a
seconda che la considerassero come ricettacolo dello Spirito universale o come
materia terrestre evaporata dal centro allo stato di vapore, e poi coagulata
per raffreddamento al contatto dell'aria.
Questi strani
nomi, che pure hanno la loro ragion d'essere, hanno fatto dimenticare il
significato reale ed iniziatico del Nostoc. Questa parola deriva dal greco …., ……,
e corrisponde al latino nox, noctis, notte. Si tratta, dunque, d'una cosa che
nasce di notte, ha bisogno della notte per svilupparsi, e può essere lavorata
soltanto di notte. In questo modo il nostro soggetto, è stato mirabilmente
nascosto agli sguardi profani, sebbene possa essere facilmente individuato e
lavorato da coloro che hanno un'esatta conoscenza delle leggi naturali. Ma quante
poche persone riflettono, ahimè! tutte le altre si limitano ad un ragionamento
superficiale!
Vediamo, ci
dite, voi che avete tanto arato, che
cosa pretendevate di fare con i vostri forni accesi, con i vostri numerosi,
svariati ed inutili utensili? Speravate forse di compiere, di sana pianta, una
vera e propria creazione? — No di
certo, perché la facoltà di creare appar- tiene soltanto a Dio, unico Creatore.
Quindi desideravate provocare, in seno ai vostri materiali, una generazione. Ma in questo caso, avete bisogno
dell'aiuto della natura, e potete star certi che quest'aiuto vi sarà rifiutato
se per disgrazia o per ignoranza, non ponete la natura in condizione
d'applicare le sue leggi. Qual è, dunque, la condizione primordiale, essenziale, perché si possa manifestare una
qualunque generazione? Risponderemo
per voi: l'assenza totale della benché minima
luce solare anche se diffusa o schermata. Guardatevi intorno, interrogate
la vostra propria natura. Non vedete che, nell'uomo e negli animali, la fecondazione e la generazione avvengono,
grazie alla particolare disposizione degli organi, in una totale oscurità, che viene mantenuta fino al giorno della nascita?
— È forse in superfìcie, in piena luce, — o nelle profondità della terra, —
nell'oscurità, — che i semi vegetali possono germogliare e riprodursi? È il
giorno o la notte, con la sua rugiada fecondante, che li alimenta e li rende
vitali? Guardate i funghi; non nascono, crescono e si sviluppano di notte? E Amiens
voi stessi, non è forse durante la notte, durante il sonno notturno, che il
vostro organismo ripara i danni, elimina le sue scorie, riforma le nuove
cellule, i nuovi tessuti al posto di quelli che la luce del giorno ha bruciato,
consunto e distrutto? Ed anche il lavoro della digestione, dell'assimilazione e
della trasformazione degli alimenti in sangue ed in sostanze organiche, si
compie nella oscurità. Volete fare un esperimento? — Prendete delle uova
fecondate, fatele covare in una stanza ben illuminata; alla fine
dell'incubazione tutte le vostre uova conterranno degli embrioni morti, più o
meno decomposti. Se per caso nascerà un pulcino, sarà cieco, malaticcio e non
sopravviverà a lungo. Tale è la nefasta influenza del sole sul processo della
generazione, ma non sulla vitalità degli individui già formati. Non crediate,
poi, che gli effetti d'una legge, fondamentale nella creazione della natura,
siano limitati soltanto ai regni organici.
Anche i minerali, nonostante la loro reazione meno visibile, sono sottoposti a
questa legge, come i vegetali e gli animali. È abbastanza noto che la
riproduzione dell'immagine fotografica è basata sulla proprietà dei sali
d'argento di decomporsi alla luce. Cioè questi sali riprendono il loro stato
metallico inerte, mentre, nel buio del laboratorio, avevano acquisito una
qualità attiva, vivente e sensibile. Due gas mescolati, il doro e l'idrogeno,
conservano la loro integrità finché non sono tenuti nell'oscurità; si combinano
lentamente alla luce diffusa e con una forte detonazione se interviene la luce
del sole. Parecchi sali metallici in soluzione, se esposti alla luce del
giorno, si trasformano o precipitano in un tempo più o meno lungo. E cosi il
solfato ferroso si muta in solfato ferrico, ecc.... È importante, quindi,
ricordare che il sole è il devastatore per eccellenza di tutte le sostanze
troppo giovani, troppo deboli per resistere al suo potere igneo. E questo è
cosi vero che su quest'azione speciale si è basata una terapia per la
guarigione di affezioni esterne, la cicatrizzazione rapida di piaghe e ferite.
Il trattamento fototerapico è stato, quindi, reso possibile dal mortale potere
dell'astro sulle cellule dei microbi, prima, e sulle cellule organiche, poi.
Ed ora, se vi
pare opportuno, lavorate pure di giorno; ma non ci accusate se i vostri sforzi
terminano soltanto con degli insuccessi. Per quel che ci riguarda, noi sappiamo
che la dea Iside è la madre di tutte le cose, e che essa le porta tutte nel suo
seno, e che soltanto lei è la dispensatrice della Rivelazione e dell'Iniziazione.
Profani, voi che avete occhi per non vedere ed orecchie per non udire, a chi
indirizzerete le vostre preghiere? Ignorate, forse, che si arriva a Gesù solo per
intercessione di sua Madre sancta Maria
ora pro nobis? E, per vostra norma, sappiate che la Vergine è raffigurata
con i piedi posati sulla falce di luna,
sempre vestita di blu, colore simbolico dell'astro notturno. Potremo dire molto
di più, ma crediamo d'aver detto abbastanza.
Terminiamo,
dunque, lo studio dei simboli ermetici originali della cattedrale d'Amiens,
esaminando, alla sinistra dello stesso portico della Vergine-Madre, un piccolo
soggetto d'angolo che ci mostra una scena d'iniziazione. Il maestro indica a
tre suoi discepoli Vostro ermetico,
sul quale ci siamo dilungati già a lungo, la stella tradizionale che serve di
guida ai Filosofi e indica loro la nascita del figlio del sole (tav. XXXVIII). A proposito di questa stella,
ricordiamo qui il motto di Nicolas Rollin, cancelliere di Filippo il Buono,
motto che fu dipinto nel 1447 sul rivestimento di piastrelle dell'ospedale di Beaune,
di cui egli era il fondatore. Questo motto, rappresentato con un rebus, — Sola,
— manifestava la scienza del suo possessore con il segno caratteristico dell'Opera, l'unica, la sola stella.
BOURGES
I
Bourges,
vecchia città del Berry, silenziosa, calma, raccolta e grigia come un chiostro
di monastero, fiera a giusto ttiolo di una cattedrale mirabile, offre ancora
agli amanti del passato alcuni altri edifici altrettanto notevoli. Tra questi, il
Palazzo Jacques-Coeur e il Palazzo Lallemant sono i più puri gioielli della sua
meravigliosa corona.
Non ci
soffermeremo molto sul primo palazzo, che un tempo fu un vero museo di emblemi
ermetici. Su di esso sono passati i vandali. Le sue successive destinazioni
hanno rovinato la decorazione degli interni, e, se la facciata non fosse
conservata nel suo primitivo stato, ci sarebbe oggi impossibile anche solo
immaginare, davanti alle pareti nude, alle sale in rovina, alle alte gallerie
dalla volta a carena, quale fu, un tempo, la magnificenza di questa sontuosa
dimora.
Jacques
Coeur, gran tesoriere di Charles VII, la fece costruire nel XV secolo, egli
ebbe la fama d'essere un Adepto esperto. Infatti David de Planis-Campy lo cita,
dicendo che possedeva « il prezioso dono della pietra da bianco », in altre
parole della trasmutazione dei metalli vili in argento. Da ciò forse derivò il suo titolo di argentier* (*Tesoriere. In francese argent significa argento,
soldi, ricchezza N.d.T.). Comunque sia, dobbiamo riconoscere che Jacques Coeur
fece di tutto per accreditare questa qualità, vera o falsa che fosse, di
filosofo, mediante il fuoco, mettendo in mostra una gran quantità di simboli ben
scelti.
Tutti
conoscono lo stemma ed il motto di questo gran personaggio: tre cuori formano il centro della
leggenda, scritta sotto forma di rebus, A
vaillans cuers riens impossible* (*Ai cuori coraggiosi niente è impossibile
(N.d.T.). Massima fiera, traboccante d'energia, che ha un significato assai
singolare se viene studiata secondo le regole cabalistiche. Infatti, se
leggiamo cuer con l'ortografia
dell'epoca otterremo contemporaneamente: 1° l'enunciato dello Spirito
universale (raggio di luce); 2° il
nome volgare della materia di base che fu lavorata (il ferro); 3° le tre ripetizioni necessarie alla perfezione totale
dei due Magisteri (i tre cuers).
Siamo quindi convinti che Jacques Coeur abbia praticato personalmente
l'alchimia, o che, come minimo, abbia visto elaborare sotto i propri occhi la pietra da bianco mediante il ferro
«essenzificato» e cotto tre volte.
Il posto
principale, tra i simboli preferiti dal nostro tesoriere, è occupato dalla
conchiglia di san Giacomo e dal cuore. Queste due immagini sono sempre
accoppiate o disposte simmetricamente, come si può vedere nei motivi centrali
dei tondi a quattro lobi delle finestrature, delle balaustre, dei pannelli e
del picchiotto del portone, ecc.. Senza dubbio c'è, in questo dualismo della
conchiglia e del cuore, un rebus imposto, riferito al nome del proprietario, o
alla sua firma stenografica. Però le conchiglie del genere a pettine (Pecten Jacoboeus dei naturalisti) sono
sempre servite come distintivo ai pellegrini di san Giacomo. Essi le portavano
sia sul cappello (come si può notare su di una statua di Saint-James
nell'abbazia di Westminster, sia intorno al collo, e sia, infine, fissate sul
petto, sempre disposte in modo da essere ben visibili. La Merelle de Compostelle
(tav. XXXIX), (* Merelle o Mareille sono le forme femminili del sostantivo
mereau (di etimologia sconosciuta),
che ha il significato di gettone di presenza. La merelle, quindi, è il nome proprio dell'oggetto con cui si gioca
(un disco, una pietra piatta, un coccio) al gioco che in italiano è detto: campana. In particolare, in Francia, la
morelle viene giocata, tra l'altro, su uno schema disegnato a terra, — avente
la forma d'una croce, e diviso in 10
stazioni. Si parte da un'estremità chiamata Terra e si deve giungere all'altra
estremità chiamata Cielo; poi si deve
tornare indietro. Qui la merelle è
accoppiata al significato simbolico del pellegrinaggio; ma Fulcanelli,
servendosi della cabala, va ancora più in là. N.d.T.). sulla quale potremmo
approfondire parecchie cose, serve, nella simbologia segreta, ad indicare il
principio Mercurio* (* Il Mercurio è l'acqua benedetta dei Filosofi. Le
grandi conchiglie, un tempo, servivano a contenere l'acqua benedetta; ancora oggi, se ne trovano spesso in molte chiese
rurali.) chiamato anche Viaggiatore o
Pellegrino. Essa è portata
misticamente da tutti coloro che iniziano il lavoro e cercano di ottenere la
stella (compostella). Niente di
strano, allora, che Jacques Coeur abbia fatto riprodurre, all'ingresso del suo
palazzo, l’icon peregrini cosi
diffusa presso i soffiatori del medioevo. Nicolo Flamel non descrive forse
parafrasando, nelle sue Figures
Hiéroglyphiques, il viaggio che intraprese per chiedere, come egli ci dice,
«al Signore Jacques di Galizia» aiuto, luce e protezione? Agli inizi tutti gli
alchimisti sono a questo stadio. Devono compiere, col bordone come guida e la «
merelle » come distintivo, quel lungo e pericoloso viaggio di cui una metà è
terrestre e l'altra metà marittima. Prima pellegrini, poi piloti.
La cappella,
restaurata ed interamente dipinta, è poco interessante. Tranne il soffitto,
dalle volte ad ogive incrociate, nel quale una ventina d'angeli un po' troppo
recenti e che hanno sulla fronte il globo e srotolano delle scritte, ed una
Annunciazione scolpita sul timpano della porta, non resta più nulla del
simbolismo d'una volta. Occupiamoci, dunque, del pezzo più originale del
Palazzo.
Si tratta
d'un bei gruppo, scolpito su di un fondo di lampada, che orna la stanza
cosiddetta del Tesoro. Si dice che rappresenti l'incontro di Tristano e Isotta.
Noi non contraddiremo questa interpretazione, perché il soggetto non cambia
assolutamente il significato simbolico che si ricava dalla scultura. Questo bei
poema medioevale fa parte del ciclo dei romanzi della Tavola rotonda, leggende ermetiche tradizionali, innovazioni delle
antiche favole greche. La leggenda di Tristano e Isotta si riferisce
direttamente alla trasmissione delle antiche conoscenze scientifiche, nascoste
sotto il velo d'ingegnose storie fantastiche rese popolari dal genio dei nostri
menestrelli piccardi (tav. XL).
Al centro del
bassorilievo, sporge uno scrignetto cubico e cavo. posto ai piedi d'un albero
fronzuto, il cui fogliame nasconde la testa incoronata del re Marco. Ai due
lati vediamo Tristan de Léonois e
Isotta, lui ha un copricapo a cercine, lei ha invece una corona, ed è
raffigurata mentre la sta tenendo con la mano destra. I nostri personaggi sono
immaginati nella foresta di Morois,
su di un folto tappeto di erbe e fiori, ed ambedue guardano fissamente la misteriosa
pietra scavata che li separa.
Il mito di
Tristano de Léonois è una replica di quello di Teseo. Tristano combatte e
uccide il Morhout, Teseo il Minotauro. Ritroviamo qui il geroglifico
della preparazione del Leone verde, —
da cui deriva il nome di Léonois o Léonnais portato da Tristano, — tale
preparazione è insegnata da Basilio Valentino mediante la parabola della lotta
di due campioni, l’aquila e il drago. Questo combattimento singolare
dei corpi chimici la cui combinazione produce il solvente segreto (e il vaso
dell'amalgama), è stato l'argomento di moltissime favole profane e d'allegorie
sacre. Quella di Cadmo che trafigge il serpente contro una quercia; quella di
Apollo che uccide con le sue frecce il mostro Pitone e di Giasone che uccide il
drago della Colchide; ed ancora Horus che combatte contro il Tifone del mito di
Osiride; Ercole che taglia la testa dell'Idra e Perseo che taglia quella della
Gorgone; e poi san Michele, san Giorgio, san Marcello che abbattono il Drago,
copie cristiane di Perseo, che a cavallo di Pegaso, uccide il mostro che
sorveglia Andromeda; ed è anche il combattimento della volpe e del gallo, di
cui abbiamo già parlato descrivendo i medaglioni di Parigi; quello
dell'alchimista col drago (Ciliani), della remora e della salamandra (di Cyrano
Bergerac), del serpente rosso e di quello verde, ecc....
Questo
solvente poco comune permette il reincrudimento*
(*Termine di tecnica ermetica che significa rendere crudo, cioè riportare ad uno
stadio anteriore a quello che caratterizza la maturità, retrocedere.) dell'oro
naturale, il suo ammoirbidimento ed il ritorno allo stato primitivo sotto forma
di sale, friabile e facilmente fusibile. Questo è il ringiovanimento del re,
segnalato da tutti gli autori, inizio d'una nuova fase evolutiva,
impersonificata, nel bassorilievo di cui ci stiamo occupando, da Tristano,
nipote del re Marco. Infatti, dal punto di vista chimico, lo zio ed il nipote
non sono altro che la stessa cosa, dello stesso genere e d'origine simile.
L'oro perde la propria corona, — perdendo il colore, — per un certo periodo di
tempo, e se ne vede privato finché non è giunto a quel grado di superiorità a
cui può essere portato dall'arte e dalla natura. Allora eredita una seconda
corona, «infinitamente più nobile della prima ». come ci assicura Limojon de
Saint-Didier. Per questo vediamo in primo piano, nettamente in rilievo, le
immagini di Tristano e della regina Isotta, mentre il vecchio re rimane
nascosto tra il fogliame dell'albero centrale, che nasce dalla pietra come
l'albero di Jessé nasce dal petto del patriarca. Notiamo ancora che la regina è
contemporaneamente la sposa del vecchio e del giovane eroe; ciò per mantenere
la tradizione ermetica che impersonifìca nel re, nella regina e nell'amante la
triade minerale della Grande Opera. Segnaliamo, infine, un particolare d'un
certo valore per l'analisi dei simboli. L'albero situato dietro Tristano è
carico di frutti enormi, — pere o fichi giganteschi, — e cosi abbondanti che il
fogliame sparisce dietro una tale abbondanza. È una strana foresta quella di
Mort-Roi* (* Re-morto. In francese Morois e Mort-Roi hanno la stessa pronuncia, ma, come si vede, la cabala
nasconde dei significati preziosi N.d.T.), saremmo proprio portati a
confonderla con il favoloso e meraviglioso Giardino delle Esperidi.
II
Ma il Palazzo
Lallemant ci farà soffermare attentamente, assai di più che non il Palazzo
Jacques-Coeur. Si tratta d'una casa borghese di dimensioni modeste e di stile
meno antico dell'altro edifìcio, offre però il raro vantaggio di presentarsi a
noi in perfetto stato di conservazione. Nessuna restaurazione, nessuna
mulilazione gli hanno tolto il bei carattere simbolico proveniente dall'abbondante
decorazione, composta da temi delicati e minuziosi.
Il corpo di
fabbrica, costruito contro una scarpata, ha la base della facciata più bassa di
circa un piano rispetto al livello del cortile. Questa particolare disposizione
ha bisogno d'una scala, coperta con volta a tutto sesto. Sistema ingegnoso ed
originale, che permette l'accesso al cortile interno, da cui si accede agli
appartamenti.
Sul
pianerottolo, coperto da una volta, all'inizio della scala, il guardiano, — del
quale dobbiamo lodare la squisita affabilità, — apre una piccola porta alla
nostra destra. «Questa, ci dice, è la cucina.» È una stanza piuttosto grande,
scavata sotto il livello del terreno, ma col soffitto basso, e illuminata a
malapena da una sola finestra, che si sviluppa in larghezza ed ha una crociera
di pietra. Un piccolo caminetto, poco profondo: questa è la cucina. Per convalidare la sua
affermazione il cicerone mostra un fondo di lampada, posto in un ricasco di
archi, in cui è raffigurato un garzone* (* «Clerc» nel testo francese;
letteralmente: chierico. Ma questa
parola è, foneticamente, eguale a «clair», chiaro; quindi il significato è per
estensione: colui che vede chiaro, colui che sa N.d.T.) che stringe il manico
d'un pestello. È veramente l'immagine d'uno sguattero del XVI secolo? Noi siamo
scettici. Il nostro sguardo va dal piccolo caminetto, — nel quale si potrebbe a
malapena arrostire un tacchino, ma che basterebbe a contenere la torre d'un
athanor, — al bamboccio promosso cuoco, e poi si rivolge alla cucina, cosi
triste, cosi buia in questa luminosa giornata d'estate...
Più
riflettiamo e meno la spiegazione della guida ci sembra verosimile. Questa sala
bassa, oscura, resa ancor più lontana dalla sala da pranzo da una scala e da un
cortile scoperto, questa sala che ha come unica attrezzatura un camino stretto,
insufficiente, sprovvisto di fondo in ferro forgiato e d'un supporto a
cremagliera, non potrebbe ospitare, evidentemente, nessuna attività culinaria.
Ed invece ci sembra proprio la sala adatta per un lavoro alchemico, dal quale deve
essere esclusa la luce solare, nemica della generazione. Quanto allo sguattero,
conosciamo troppo bene la cura, la coscienza, lo scrupolo d'esattezza col quale
lavoravano gli imaigiers* (* Scultori N.d.T.) d'un tempo quando traducevano
in scultura le loro idee, per chiamare pestello
lo strumento che questa statua mostra al visitatore. Non riusciamo a
credere che l'artista abbia dimenticato di rappresentare il mortaio, attrezzo che avrebbe completato
la raffigurazione. Del resto, solo la forma dell'utensile è caratteristica ma
ciò che il bamboccio in questione tiene in mano è in realtà un matraccio a collo lungo, simile a quelli
che usano i nostri chimici, e che essi chiamano anche palloni, a causa della loro pancia sferica. Infine, l'estremità del
manico di questo supposto pestello è
svuotata e tagliata di sbieco, cosa questa che prova proprio che abbiamo a che
fare con un utensile cavo, sia esso vaso o fiala (tav. XLI).
Questo vaso
indispensabile e tanto misterioso è stato chiamato con molti nomi, tutti scelti
in modo da distogliere i profani, non solo dalla sua vera destinazione ma anche
da ciò con cui è fatto. Gli Iniziati ci capiranno e sapranno di quale vaso
intendiamo parlare. In genere è chiamato uovo
filosofico e Leone verde. Con la
parola uovo, i Saggi vogliono
indicare la loro amalgama, disposta nel vaso adatto, e pronta a subire le
trasformazioni che saranno provocate dall'azione del fuoco. In questo senso, è
proprio come un uovo, perché l'involucro, o il guscio, racchiude in sé il rebis filosofale, formato dal bianco e
dal rosso secondo una proporzione simile a quella dell'uovo degli uccelli. Il
secondo epiteto, invece, non è stato mai spiegato in nessun testo. Batsdorff,
nel suo Filet d'Arìadne, dice che i
Filosofi hanno chiamato Leone verde
il recipiente che serve alla cottura, ma senza darne nessuna spiegazione. Il
Cosmopolita, insistendo maggiormente sulle qualità del vaso e su quanto esso
sia necessario nel corso del lavoro, afferma che nell'Opera «c'è soltanto
questo Leone verde che chiude ed apre
i sette indissolubili sigilli dei sette spiriti metallici, e che tormenta i
corpi finché non li abbia completamente perfezionati, a prezzo d'una lunga e
perseverante pazienza dell'artista».
Nel manoscritto
di G. Aurach* (* Le très précieux Don de Dieu. Manoscritto di Georges Aurach,
di Strasbourg. scritto ed illustrato di sua mano, nell'anno della Salvezza
dell'Umanità riscattata, 1415.) vediamo un matraccio di vetro pieno per metà
d'un liquido verde; l'autore aggiunge che tutta l'arte sta nell'ottenere
soltanto questo Leone verde e che il nome stesso ne indica il colore. È il vetriolo
di Basilio Valentino. La terza figura del Vello d'oro è quasi identica
all'immagine di G. Aurach. Nella prima vediamo un filosofo vestito di rosso,
col capo coperto da un berretto verde, e che indossa un mantello di porpora,
mentre mostra con la mano destra un matraccio di vetro contenente un liquido
verde. Ripley s'avvicina maggiormente alla verità quando dichiara: «Un solo
corpo immondo entra nel nostro magistero; comunemente i Filosofi lo chiamano
Leone verde. È il mezzo e il modo per unire le tinture tra il sole e la luna.»
Secondo
queste informazioni, è chiaro che il vaso è considerato in due modi: per quel
che riguarda la materia che lo compone e per la sua forma, da un lato come un vaso di natura, dall'altro come vaso dell'arte. Le descrizioni, — poche
e poco chiare, — che abbiamo riportato, si riferiscono alla natura del vaso;
una gran quantità di testi, invece ci informano sulla forma dell'uovo. Esso può
essere, a piacimento, sferico od ovale, purché sia in vetro bianco,
trasparente, ottenuto senza soffiatura. È assolutamente necessario che le sue
pareti siano d'un certo spessore, per resistere alle pressioni interne, ed
alcuni autori raccomandano di scegliere, a questo scopo, il vetro della Lorena*
(*Le parole vetro di Lorena,
servivano a distinguere, un tempo, il vetro molato
dal vetro soffiato. Grazie alla
molatura, il vetro di Lorena poteva avere delle pareti molto spesse e regolari.).
II collo, infine, è lungo o corto, secondo le intenzioni dell'artista o secondo
la sua comodità; l'essenziale è che lo si possa saldare facilmente con la
lampada da smaltatore. Ma questi particolari pratici sono sufficientemente
noti, tanto da dispensarci da più ampie spiegazioni.
Noi vorremmo
soprattutto far notare che il laboratorio ed il vaso per l'Opera, il luogo nel
quale lavora l'Adepto e quello nel quale agisce la natura, sono le due cose
certe che colpiscono l'iniziato al principio della visita e che rendono il
Palazzo Lallemant una delle più seducenti e rare dimore filosofali.
Preceduti
dalla guida, eccoci adesso nel cortile lastricato. Con pochi passi raggiungiamo
l'ingresso d'una loggia
abbondantemente illuminata da un portico formato da tré archi e tutto sesto. È
una grande sala, dal soffitto sottolineato da grossi travetti. Vi si trovano dei
monoliti, delle stele ed altri frammenti antichi, che conferiscono al luogo
l'aspetto d'un museo d'archeologia locale. Ma il nostro interesse è rivolto ad
altro, al muro di fondo nel quale è incastrato un magnifico bassorilievo in
pietra dipinta. Esso rappresenta san Cristoforo che depone il piccolo Gesù
sulla riva rocciosa del famoso torrente ch'essi hanno appena attraversato. In
secondo piano, un eremita, con la lanterna in pugno, — perché la scena avviene
di notte, — esce dalla sua capanna e viene verso il Bambino-Re (tav. XLII).
Ci è capitato
spesso di trovare delle belle rappresentazioni di san Cristoforo; però nessuna
di esse è rimasta cosi aderente alla leggenda come questa. Ci sembra, quindi,
senza alcun dubbio, che il soggetto di questo capolavoro e il testo di Jacques
de Voragine contengano lo stesso significato ermetico, con, in più, alcuni
particolari che non si potrebbero trovare altrove. San Cristoforo, perciò,
acquista una capitale importanza in rapporto all'analogia esistente' tra questo
gigante, che porta il Cristo, e la materia che porta l'oro (parola greca), che
ha quindi lo stesso ruolo che ha nell'Opera. Poiché è nostra intenzione essere
utili allo studioso sincero e in buona fede, spiegheremo subito il significato
esoterico, che invece abbiamo lasciato da parte quando abbiamo parlato delle
statue di san Cristoforo e del monolito innalzato sul sagrato di Notre-Dame a
Parigi. Ma, volendo farci capire ancora meglio, trascriveremo per prima cosa il
racconto della leggenda riportato da Amédée de Ponthieu* (*Amédée de Ponthieu, Légendes du Vieux Paris. Parigi,
Bachelin-Deflorenne, 1867, p. 106.) secondo Jacques de Voragine. Sottolineeremo
a bella posta i passaggi e i nomi che si riferiscono direttamente al lavoro,
alle condizioni ed ai materiali, perché ci si possa fermare, riflettere e trame
profitto.
«Prima
d'essere cristiano, Cristoforo si chiamava Offerus;
era una specie di gigante, dalla mente molto ottusa. Quando raggiunse la maggiore
età, si mise in viaggio dicendo che
voleva servire il più gran re della terra.
Gli consigliarono d'andare alla corte di un re molto potente che fu ben
contento d'avere un servitore cosi
forte. Un giorno il re, sentendo un menestrello pronunciare il nome del
diavolo, terrorizzato, si fece il segno della croce. — Perché fai cosi? chiese
subito Cristoforo. — Perché io ho paura del diavolo, rispose il rè. — Ma se lo temi,
non sei dunque altrettanto potente? Allora io voglio servire il diavolo. — Cosi
detto, Offerus si allontanò dalla
corte.
«Dopo una
lunga marcia alla ricerca di questo potente monarca, vide avanzare una grande
schiera di cavalieri vestiti di rosso; il loro capo era nero e gli disse : —
Che cosa desideri? — Io cerco il diavolo per servirlo. — Io sono il diavolo,
seguimi. — E così Offerus si trovò arruolato
tra i servitori di Satana. Un giorno, durante una lunga corsa, la schiera
infernale incontrò una croce sul bordo della strada; il diavolo ordinò di
tornare indietro. — Perché? chiese Offerus, sempre desideroso d'imparare. —
Perché io temo l'immagine del Cristo. — Se tu temi l'immagine del Cristo,
significa che tu sei meno potente di lui; allora io voglio entrare al servizio del Cristo. — Offerus, da solo, passò davanti alla croce e continuò la sua strada.
Incontrò un buon eremita e gli chiese
dove avrebbe potuto vedere il Cristo. — Dovunque, rispose l'eremita. — Non
capisco, disse Offerus, ma se dici la
verità, quali servizi gli potrebbe rendere un giovanotto robusto e sveglio come
me? — Bisogna servirlo, rispose l'eremita, con la preghiera, i digiuni e le veglie.
— Offerus fece una smorfia. — Non c'è un altro modo per diventare ben accetto?
chiese. — L'eremita comprese con chi aveva a che fare e, presolo per mano, lo
condusse sulla riva d'un torrente
impetuoso, che scendeva da un'alta
montagna; qui giunto, gli disse: — Tanta povera gente che ha attraversato quest'acqua è morta annegata; resta qui, e porta sull'altra riva,
sulle tue robuste spalle, quelli che tè lo chiederanno. Se farai questo per
amore di Cristo, egli ti riconoscerà come suo
servitore. — Volentieri lo farò per amore del Cristo, rispose Offerus. — Quindi si costruì una capanna
sulla riva e, giorno e notte, trasportò i viaggiatori che glielo chiedevano.
«Una notte, spossato dalla stanchezza,
dormiva profondamente; lo svegliarono dei colpi bussati alla sua porta, e udì
la voce d'un bambino che, per tre volte, lo chiamò per nome!. Si alzò,
pose il bambino sulle larghe spalle ed entrò nel torrente. Arrivato nel mezzo
del letto, vide che improvvisamente il torrente diventava sempre più gonfio e minaccioso,
le onde s'ingrossavano e si precipitavano contro le sue gambe nerborute per
rovesciarlo. Egli faceva del suo meglio per resistere, ma il bambino pesava
come un grosso fardello; allora, nel timore di lasciar cadere il piccolo
viaggiatore, sradicò un albero per appoggiarsi; ma i flutti s'ingrossarono
ancora, ed il bambino stava diventando sempre più pesante. Offerus, temendo di vederlo morire, alzò la testa verso di lui e
gli disse: — Bambino, perché diventi cosi pesante? Mi sembra di star portando
il mondo. — Il bambino rispose : — Non solo tu porti il mondo, ma anche colui che ha fatto il mondo. Io sono il Cristo,
tuo Dio e tuo padrone. In ricompensa dei tuoi buoni servigi, io ti battezzo nel
nome di mio Padre, nel mio proprio nome ed in quello dello Spirito Santo; d'ora
in poi tu ti chiamerai Cristoforo. — Da quel giorno, Cristoforo andò viaggiando
per il mondo per insegnare la parola del Cristo.»
Questa
narrazione è sufficiente per mostrare con quanta fedeltà l'artista ha notato e
riprodotto anche i più piccoli dettagli della leggenda. Ma ha fatto anche di
meglio. Dietro ispirazione del sapiente ermetista che gli aveva ordinato
l'opera* (*Da alcuni documenti conservati negli archivi del Palazzo Lallemant,
sappiamo che Jean Lallemant faceva parte della Confraternita alchemica dei Cavalieri della Tavola rotonda.), lo
scultore ha raffigurato il gigante, con i piedi ancora in acqua, vestito d'una
leggera stoffa annodata sulle spalle e stretta da una larga cintura all'altezza
dell'addome. È proprio questa cintura che conferisce a San Cristoforo il suo
vero carattere esoterico. Quello che stiamo per dire qui, non si insegna. Ma, in
più del fatto che, per molte persone, la scienza qui rivelata resta lo stesso
oscura ed incomprensibile, crediamo anche che, d'altra parte. un libro che non
insegni nulla sia inutile e vano. Per questo motivo, ci sforzeremo di
sviscerare il simbolo, per quanto ci è possibile, in modo da mostrare agli
investigatori dell'occulto il fatto
scientifico nascosto dalla propria immagine simbolica.
La cintura di
Offerus è trapunta secondo linee
incrociate, simili a quelle che si vedono sulla superficie del solvente
quando è stato preparato canonicamente.
Questo è il Segno, che tutti i
Filosofi riconoscono per indicare, esteriormente, la virtù, la perfezione e
l'estrema purezza intrinseche della loro sostanza mercuriale. Abbiamo già
detto, parecchie volte, e lo ripetiamo ancora, che tutto il lavoro dell'arte
consiste nel purificare questo mercurio fino a quando non si sia rivestito del segno indicato. Questo segno, gli autori
l'hanno chiamato Sigillo di Hermes, Sale dei Saggi (Sel sta per Scel * (Nell'antico francese Sel (sale) e Scel
(sigillo). La loro pronuncia è eguale e, come si vede, è simile anche
l'ortografia N.d.T.)), — cosa questa che getta la confusione nello spirito dei
ricercatori, — segno e impronta
dell'Onnipotente, ed anche sua firma,
ed ancora Stella dei Magi, Stella polare, ecc. Questa disposizione
geometrica sussiste ed appare con maggiore definizione quando si è messo a
sciogliere l'oro nel mercurio, per portarlo al suo stadio primitivo, quello di oro giovane o ringiovanito, in una parola di oro
bambino. Per questa ragione, il mercurio, — fedele servitore e Scel della
terra* (* Sigillo N.d.T.), — è chiamato Fontana
di giovinezza. Quindi i Filosofi si esprimono chiaramente quando insegnano
che il mercurio, una volta effettuata la soluzione, porta il bambino, il Figlio del
Sole, il Piccolo Re (Reuccio), come una vera e propria madre,
perché, in effetti, l'oro, nel suo seno,
rinasce. «Il vento, — cioè il mercurio alato e volatile, — lo ha portato
nel proprio ventre», ci dice Ermes nella sua Tavola Smeraldina. Ritroviamo la versione segreta di questa verità
positiva nella Focaccia dei Re, che è
usanza dividere tra i mèmbri della famiglia, il giorno dell'Epifania, celebre
festa che ricorda la manifestazione
di Gesù Cristo bambino ai Re Magi e
ai Gentili. La Tradizione vuole che i Magi siano stati guidati fino alla culla del
Salvatore da una stella, che fu, per
essi, il segno annunciatore, la Buona
novella della sua nascita. La nostra focaccia
è segnata come lo è la stessa materia
e contiene nella pasta il piccolo bambino popolarmente chiamato bagnante. È il Bambino-Gesù portato da
Offerus, il servitore o il viaggiatore; è l'oro nel suo bagno, il bagnante; è la fava, lo zoccolo, la culla, o la croce d'onore, ed è anche il pesce
«che nuota nel nostro mare filosofico» secondo l'espressione usata dal
Cosmopolita* (* Cosmopolite o Nouvelle Lumière chimique. Traile du Sei. Parigi,
J. d'Houry, 1669,p. 76.). Facciamo notare che, in alcune basiliche bizantine, il
Cristo, talvolta, era rappresentato come le Sirene, con una coda di pesce. Lo si può vedere raffigurato in
questo modo anche su di un capitello della chiesa di Saint-Brice a
Saint-Brisson-sur-Loire (Loiret). Il pesce
è il geroglifico della pietra dei
Filosofi al suo primo stato, perché la pietra, come il pesce, nasce nell'acqua
e vive nell'acqua. Tra le pitture della stufa alchemica, costruita nel 1702 da
P.H. Pfau* (* Conservata nel Museo di Winterthur, Svizzera), si può vedere un pescatore
con la lenza che tira fuori dall'acqua un bel pesce. Altre allegorie raccomandano di prenderlo per mezzo d'una reticella o di una rete, che sono un'immagine esatta della maglia, formata da fili
incrociati, schematizzata sulle nostre focacce* (* L'espressione popolare avoir
de la gaiette equivale a essere fortunato. Chi è abbastanza fortunato da
trovare la fava della focaccia non ha più bisogno di niente; non gli mancherà
mai il denaro. Sarà due volte re, per la scienza e per la ricchezza.)
dell'Epifania. Segnaliamo anche un'altra forma emblematica più rara, ma non
meno luminosa. In una famiglia di amici, presso la quale eravamo stati invitati
a dividere la focaccia con gli altri, vedemmo sulla crosta, e non senza
sorpresa, una quercia che allargava i suoi rami, al posto delle incisioni a
losanga che vengono usate normalmente. Al piccolo bagnante era stato sostituito
un pesce di porcellana, e questo pesce
era una sole* (* Sogliola N.d.T.) (dal
latino: sol, solis, il sole). Spiegheremo tra poco il significato ermetico della
quercia, parlando del Vello d'oro.
Aggiungiamo ancora che il famoso pesce
del Cosmopolita, che egli chiama Echineis,
è l’oursins* (*5 Riccio di mare
N.d.T.) (dal latino: echinus), l’orsacchiotto, la piccola orsa, costellazione nella quale si trova la stella polare. Le impronte di ricci di
mare fossili, che si trovano abbondantemente in molti terreni, presentano una
faccia radiata a forma di stella. Per questo Limojon de Saint-Didier raccomanda
agli investigatori di regolare la loro strada «guardando la stella del nord.»
Questo pesce misterioso è il pesce regale per eccellenza; chi lo scopre
nella sua parte di focaccia è onorato col titolo di re e festeggiato come tale. Ora, un tempo, si chiamava pesce regale soltanto il delfino, o lo
storione, il salmone e la trota perché, si diceva, queste varietà di pesce
erano riservate alla tavola del re. Ma, in verità, questa denominazione aveva
soltanto carattere simbolico, perché il figlio
maggiore del re, colui che doveva a sua volta cingere la corona, aveva il
titolo di Delfino, che è il nome d'un
pesce, e, ancor meglio, d'un pesce regale.
Del resto, i pescatori in barca del Mutus
Liber cercano di prendere, sia con ami e lenze che con la rete, proprio un delfino. Altri delfini si
possono notare in diversi motivi decorativi del Palazzo Lallemant; alla finestra
mediana della torretta d'angolo, sul capitello d'un pilastro, ed anche sul
coronamento d'una credenza, nella cappella. L’Ichtus greco delle Catacombe romane non ha altra origine. Infatti,
Martigny* (* Martigny, Dictionnaire des Antiquités chrétiennes, art.
Eucharistie, II edizione, p. 291.) riproduce una curiosa pittura delle
Catacombe, che rappresenta un pesce che nuota tra i flutti portando sul dorso
un cesto nel quale vi sono dei pani ed un oggetto rosso di forma allungata, che
potrebbe essere un recipiente colmo di vino. Il cesto portato dal pesce è lo stesso geroglifico della focaccia;
anche la sua struttura, infatti, è eseguita con vimini intrecciati a losanga.
Per non dilungarci troppo su questi accostamenti, ci accontentiamo di far
notare attentamente la cesta di Bacco
chiamata Cista, portata dalle
Cristofore in occasione delle processioni dei baccanali e «nelle quali, ci dice
Fr. Noèl* (* Fr. Noèl, Dictionnaire de la Fable, Parigi, Le Normant, 1801.),
era rinchiuso ciò che c'era di più misterioso.»
E perfino la pasta di questa focaccia
obbedisce alle leggi della sim-
bologia
tradizionale. Questa pasta è una sfoglia*
(*3 Sfaldabile, a strati, a sfoglie N.d.T.) ed il nostro piccolo bagnante vi è incluso come un
segnalibro. In questo c'è una strana ed interessante conferma della materia
rappresentata simbolicamente dalla focaccia dei Re. Sendivogius ci fa sapere
che il mercurio preparato ha l'aspetto e la forma d'una massa pietrosa friabile
e feuilletée* (*4 In francese
feuilletée deriva da feuillet (foglio) N.d.T.). «Se l'osservate bene, dice,
noterete che essa è completamente sfaldabile.» Infatti, le lamine cristalline,
che compongono questa sostanza, sono sovrapposte come i fogli d'un libro, per questa ragione è stata chiamata terra a foglio, o terra di fogli, libro di
fogli, ecc. Perciò vediamo la materia prima dell'Opera espressa
simbolicamente da un libro ora aperto,
ora chiuso, secondo ch'essa sia stata lavorata o sia appena estratta dalla
miniera. Talvolta, quando questo libro è raffigurato chiuso, — indicando cosi
la sostanza minerale grezza, — non è raro vederlo anche sigillato da sette
bande; sono il segno delle sette operazioni successive che permettono di
aprirlo poiché ciascuna di esse spezza uno dei sigilli di chiusura. Tale è il Gran Libro della Natura, che racchiude, nelle
sue pagine, la rivelazione delle scienze profane e quella dei misteri sacri. È
un libro dallo stile semplice, di facile lettura, a condizione, però, che si
sappia dove trovarlo, — cosa assai difficile, — e che, soprattutto, lo si
sappia aprire, — cosa che è ancora più laboriosa.
Visitiamo
adesso l'interno del Palazzo. In fondo al cortile si apre la porta, dall'arco ribassato,
che da accesso agli appartamenti. Queste sale sono ricche di cose assai belle,
e gli amanti del nostro Rinascimento vi troveranno ampiamente di che soddisfare
i loro gusti. Attraversiamo la sala da pranzo, il cui soffitto a cassettoni e
l'alto caminetto, istoriato con le insegne di Luigi XII e di Anna di Bretagna, sono
delle vere meraviglie, ed entriamo nella cappella.
Si tratta
d'un vero gioiello, cesellato ed arabescato con amore da artisti veramente
ammirevoli; questa piccola stanza si sviluppa in lunghezza piuttosto che in
larghezza e, tranne la finestra trifora in puro stile ogivale, non si può dire
che sia una vera cappella. Tutta la decorazione, infatti, è profana, tutti i
motivi che la ornano sono presi in prestito alla scienza ermetica. Un superbo
bassorilievo dipinto, eseguito, con lo stesso stile del san Cristoforo della loggia, ha per argomento il mito pagano
del Vello d'oro. I cassettoni del soffitto servono da cornice a numerose figure
geroglifiche. Una bella nicchia istoriata del XVI secolo propone un enigma
alchemico. Non c'è una scena religiosa, non un versetto d'un salmo, non una
parabola evangelica, nient'altro che il verbo misterioso dell'Arte
sacerdotale... È possibile che sia stata celebrata la Messa in questa stanza,
dai paramenti cosi poco ortodossi, e che è, invece, tanto propizia, con la sua
mistica intimità, alla meditazione, alle letture, oppure alla preghiera del
Filosofo? — — Cappella, studio o oratorio? Noi poniamo la domanda senza dare
una risposta.
Il
bassorilievo del Vello d'oro, è la
prima cosa che si nota, entrando: si tratta d'un bellissimo paesaggio in
pietra, messo in risalto dal colore, ma poco illuminato, pieno di curiosi
dettagli più difficili da studiare adesso che la patina del tempo li rende di
diffìcile interpretazione. Al centro d'un anfiteatro roccioso, ricco di muschio
e dalle pareti verticali, si alza una foresta di tronchi rugosi e ricchi di
fogliame; l'essenza principale di questo bosco è la quercia. Alcune radure
lasciano intravedere diversi animali, ma è malagevole riconoscerli, — c'è un
dromedario, un bue o una vacca, una rana sulla sommità d'una roccia, ecc., —
essi animano l'aspetto selvaggio e poco accogliente del luogo. Dal terreno
erboso nascono dei fiori e delle canne del genere phragmites. A destra, la spoglia dell'ariete: essa è posata su di una roccia e sorvegliata da un drago,
il cui profilo minaccioso si staglia contro il cielo. Anche Giasone era
raffigurato ai piedi d'una quercia, ma questo pezzo della composizione, essendo
certamente a tutto tondo e quindi poco aderente, si è staccato dall'insieme
(tav. XLIII).
La favola del
Vello d'oro è un enigma completo del
lavoro ermetico che deve terminare con la Pietra Filosofale* (* Vedi Alchimie,
op. cit.). Nella lingua degli Adepti, si chiama Vello d'oro la materia preparata per l'Opera, e lo stesso nome
viene dato anche al risultato finale. Cosa, questa, assai esatta, perché queste
sostanze si differenziano solo per purezza, fissità e maturità. Pietra dei
Filosofi e Pietra Filosofale sono dunque due cose simili, per quel che riguarda
la specie e l'origine, ma la prima è cruda, mentre la seconda, che deriva
dall'altra, è perfettamente cotta e digerita. I poeti greci ci raccontano che
«Zeus fu cosi contento del sacrifìcio fatto in suo onore da Frisso che volle
che tutti quelli che avessero posseduto questo vello vivessero nell'abbondanza
finché lo conservavano presso di sé, e che, però, fosse permesso a tutti di
tentare di conquistarlo.» Si può essere certi, senza paura di sbagliare, che
quelli che approfittano di quest'autorizzazione non sono affatto numerosi. E
non perché il compito sia impossibile ne particolarmente pericoloso, — perché
tutti quelli che conoscono il drago sanno anche come vincerlo, — ma la grossa
difficoltà sta nell'interpretazione del simbolismo. In che modo si potrebbe
stabilire una concordanza soddisfacente fra tante immagini diverse, fra tanti
testi contraddittori? Eppure è il solo mezzo a nostra disposizione per
riconoscere la dirczione giusta tra tutti gli altri sentieri senza sbocco,
vicoli ciechi, insuperabili, che ci vengono offerti e che tentano il neofìto
impaziente di avanzare. Per questo non ci stancheremo mai d'esortare i
discepoli a con vergere i loro sforzi verso la soluzione di questo punto
oscuro, sebbene materiale e tangibile, vero e proprio asse intorno al quale
ruotano tutte le combinazioni simboliche che stiamo studiando.
In questo caso, la verità ci appare nascosta
da due immagini distinte, quella della quercia
e quella dell'ariete, le quali
rappresentano, come abbiamo appena detto, nient'altro che la medesima cosa sotto due aspetti differenti. Infatti, la quercia è sempre stata scelta, dagli autori antichi, per indicare
il nome volgare del soggetto iniziale, come lo si trova in miniera. I Filosofi
ci danno le notizie necessario su questa materia, solo con approssimazione,
l'equivalente della quale corrisponde alla quercia.
La frase di cui ci stiamo servendo può parere equivoca; ce ne dispiace, ma non
si potrebbe dire di più senza oltrepassare certi limiti. Soltanto gli iniziati
al linguaggio degli dèi capiranno senza sforzo, perché essi posseggono le
chiavi che aprono tutte le porte, sia quelle della scienza che quelle della
religione. Ma per alcuni presunti cabalisti, giudei o cristiani che siano, ma
forniti di pretensione piuttosto che di vera scienza, quanti Tiresia, Talete o
Melampo esistono, che siano capaci di comprendere le cose? Certamente noi non ci
prendiamo la briga di scrivere per costoro, le cui combinazioni illusorie non
approdano a niente di positivo, di solido, di scientifico. Lasciamo, dunque,
questi dottori della Kabbala nella
loro ignoranza e torniamo al nostro bassorilievo, caratterizzato, dal punto di
vista ermetico, dalla quercia.
Nessuno
ignora che la quercia ha sovente sulle sue foglie delle piccole escrescenze
rotonde e rugose, talvolta bucate da un piccolo foro, e chiamate noci di galla (dal latino: galla). Ora, se noi
accostiamo tre parole latine e della stessa famiglia: galla, Gallia, gallus,
abbiamo: galla, Gallia, gallo. Il
gallo è l'emblema della Gallia e attributo di Mercurio, come dice espressamente
Jacob Tollius* (*Manuductio ad Coelum chemicum. Amstelodami, ap. J.
Waesbergios, 1688.); esso infatti è il coronamento dei campanili delle chiese
francesi, e non senza ragione la Francia è chiamata: Figlia primogenita della
Chiesa. Non ci resta che un piccolo passo da fare per scoprire ciò che i
maestri dell'Arte hanno nascosto con tanta cura. Continuiamo. Non soltanto la quercia
fornisce la galla, ma da anche il Kermès, che, nella Gaia Scienza, ha lo
stesso significato di Ermes, essendo permutanti le consonanti iniziali* (* La
permutazione, è ovvio, avviene con le parole scritte con la grafia francese;
Kermes e Hermès. Cioè tra K e H. N.d.T.). Ambedue questi hanno un significato identico,
quello di Mercurio, Però, mentre la
galla indica il nome della materia mercuriale grezza, il Kermès (in arabo girmiz, che
tinge di scarlatto) caratterizza la sostanza preparata. È importante non
confondere queste cose per non perdersi quando si passerà alle prove pratiche.
Ricordatevi quindi che il mercurio dei Filosofi, cioè la loro materia
preparata, deve avere la capacità di tingere, e che acquista questa capacità
soltanto per mezzo delle prime preparazioni.
Quanto al
soggetto grossolano dell'Opera, alcuni lo chiamano Magnesia lunarii; altri, più sinceri, lo chiamano Piombo dei Saggi, Saturno vegetale.
Filalete, Basilio Valentino, il Cosmopolita lo chiamano Figlio o Bambino di Saturno.
Con queste differenti denominazioni si riferiscono talvolta alla sua proprietà
magnetica ed attrattiva nei riguardi dello zolfo, talvolta alla sua qualità di
fusibilità, alla sua facile liquefazione. Per tutti è la Terra santa (Terra sancta);
infine questo minerale ha per geroglifico celeste il segno astronomico dell’Ariete (Aries). Gala in greco
significa latte, ed il mercurio è chiamato anche Latte di Vergine (lac
virginis). Quindi, fratelli, se seguite attentamente quello che abbiamo
detto a proposito della galette des Rois*
(* Focaccia dell'Epifania N.d.T.), e se sapete perché gli Egiziani avevano
divinizzato il gatto, non avrete più
ragione di dubitare del materiale che dovrete scegliere; ormai ne conoscerete
chiaramente il nome volgare. Possederete, allora, quel Caos dei Saggi «nel quale si trovano in potenza tutti i segreti
occulti», come ci dice Filalete, e che l'artista abile in poco tempo sa rendere
attivi. Aprite, cioè decomponete questa materia, cercate d'isolarne la parte
più pura, o la sua anima metallica,
secondo l'espressione consacrata, ed avrete il Kermes, l'Ermes, il mercurio che tinge, che ha in sé l’oro mistico, proprio come san Cristoforo
porta Gesù e l'ariete il proprio vello. Comprenderete perché il Vello d'oro è appeso ad una quercia, proprio come la galla ed il
Kermes, e potrete dire, senza essere contro la verità, che la vecchia quercia ermetica fa da madre al
mercurio segreto. Accostando tra di loro leggende e simboli, si farà la
luce nel vostro spirito e conoscerete cosi la stretta affinità che unisce la
quercia all'ariete, san Cristoforo al Bambino-Re, il Buon Pastore alla
pecorella, copia cristiana dell'Ermes erioforo, ecc....
Allontanatevi
dalla soglia della cappella e ponetevi al centro; alzate gli occhi; potrete
ammirare una delle più belle collezioni di emblemi che si possano trovare* (*A
questo soffitto se ne possono paragonare altri due inestimabili, ricchi di soggetti
ermetici: uno si trova a Dampierre-sur-Boutonne, anch'esso scolpito, del XVI
secolo (vedi Le Dimore Filosofali.
Roma, Edizioni Mediterranee, 1972); l'altro a Plessis-Bourré, illustrato da dipinti
del XV secolo (vedi Deux Logis
Alchimiques). Il soffitto, composto di cassettoni disposti su tre file
longitudinali, è sostenuto, nel mezzo della luce, da pilastri a pianta quadrata
accostati al muro perimetrale, e che hanno quattro scanalature su ciascuna
faccia.
Il pilastro
di destra, rivolto verso l'unica finestra che illumina questa piccola stanza,
ha tra le sue volute un cranio umano posto su di un sostegno di foglie di
quercia, ed è provvisto di due ali. Traduzione assai espressiva della nuova
generazione, nata dalla putrefazione, che segue la morte, la quale, a sua
volta, sopravviene nei composti quando essi hanno perso la loro anima vitale e
volatile. La morte del corpo fa apparire un colore blu scuro o nero assegnato
al Corvo, geroglifico del caput mortuum dell'Opera. Questo è il
segno e la prima manifestazione della dissoluzione, della separazione degli
elementi e della futura generazione dello zolfo,
principio colorante e fìsso dei metalli. Le due ali sono state messe per
indicare che, con l'abbandono della parte volatile ed acquosa, avviene la
sconnessione delle parti, e che la coesione è ormai spezzata. Il corpo,
mortificato, precipita in cenere nera, dall'aspetto di polvere di carbone. Poi
con l'azione del fuoco intrinseco sviluppato da questa disgregazione, la
cenere, calcinata, abbandona le proprie impurità grossolane e combustibili; nasce
allora un sale puro che con la cottura, pian piano, si colora ed assume
l'occulta potenza del fuoco (tav. XLIV).
Il capitello
di sinistra mostra un vaso decorativo la cui bocca è fiancheggiata da due
delfini. Un fiore, che sembra uscire dal vaso, sboccia con una forma che
ricorda quella dei gigli d'araldica. Tutti questi simboli si riferiscono al
solvente, o mercurio comune dei Filosofi, principio contrario allo zolfo, del
quale abbiamo già visto l'emblema della sua elaborazione sull'altro capitello.
Nella base di
ambedue i capitelli, una larga corona di foglie di quercia, traversata
verticalmente da un fascio di foglie anch'esse di quercia, riproduce il segno
grafico corrispondente, nell'arte spagirica, al nome volgare della materia.
Cosi la corona ed il capitello realizzano il simbolo .completo della materia
prima, che è anche rappresentata da quel globo, che Dio, Gesù e qualche grande
sovrano tengono nella loro mano, come possiamo vedere in tante raffigurazioni.
Ma il nostro
intento non è quello di analizzare minutamente tutte le immagini che decorano
il cassettonato di questo soffitto, modello del suo genere. L'argomento, assai
esteso, avrebbe bisogno di uno studio speciale e ci obbligherebbe a delle
frequenti ripetizioni. Ci limiteremo quindi a darne una rapida descrizione ed a
riassumere il significato delle immagini più originali. Tra di esse segnaliamo,
prima di tutto, il simbolo dello zolfo e della sua estrazione dalla materia
prima, il cui simbolo grafico è fissato, come abbiamo appena visto, su ciascuno
dei due pilastri. Si tratta d'una sfera
armillare deposta su di un fornello ardente, e che ha una notevole
rassomiglianza con una delle incisioni del trattato dell'Azoto. Qui il braciere
è al posto di Atlante, e quest'immagine del nostro lavoro, già di per sé assai
istruttiva, ci dispensa da ogni commento. Poco più in là è raffigurato, un comune alveare, di paglia, riprodotto
con le api tutt'intorno; argomento, questo, che è molto spesso usato,
specialmente sul forno alchemico di Winterthur, Ecco qui, — che decorazione
singolare per una cappella! — un bambino che urina con un forte zampillo nel
suo zoccolo. Più in là, lo stesso
bambino inginocchiato vicino ad una pila di lingotti appiattiti, tiene un libro aperto, mentre ai suoi piedi giace
un serpente morto. — Dobbiamo
fermarci o proseguire? — Esitiamo. Un particolare, che sta nella penembra delle
modanature, indica il significato del piccolo bassorilievo; sul pezzo più alto
della pila si vede il sigillo stellato del
re mago Salomone. In basso il mercurio;
in alto l'Assoluto. Procedimento
semplice e completo che comporta una sola via, esige un'unica materia, ha bisogno d'una
sola operazione. «Chi sa compiere l'Opera con il solo mercurio ha trovato
ciò che c'è di più perfetto* (* A questo punto Fulcanelli utilizza il
post-scriptum della lettera che aveva portato con sé per tanti anni, e che
abbiamo già riprodotto in extenso, nel 1957, nella nostra seconda prefazione.)»
Questo almeno è quello che affermano tutti i più celebri autori. L'unione dei
due triangoli del ferro e dell'acqua, o dello zolfo e del mercurio riuniti in
un corpo solo, genera l'astro a sei punte, geroglifico dell'Opera per eccellenza
e della Pietra Filosofale realizzata. A fianco di quest'immagine ce n'è
un'altra che ci mostra un avambraccio infiammato, la cui mano tiene delle
grosse castagne o marroni; più in là lo stesso simbolo
geroglifico, uscendo da una roccia, tiene una torcia accesa; qui, invece, c'è
il corno d'Amaltea, traboccante di fiori e di frutta, che serve da trespolo ad
un francolino o pernice, — l'uccello in questione non è ben caratterizzato; ma che
l'emblema sia una gallina nera o la pernice rossa non cambia nulla al
significato ermetico espresso. Qui ecco un vaso
capovolto, sfuggito per la rottura d'un legame, dalle fauci d'un Icone
decorativo che lo teneva in equilibrio: è una versione originale del solve et coagula di Notre-Dame de Paris;
poco distante c'è un soggetto poco ortodosso ed alquanto irriverente: un bambino
che cerca di spezzare sul proprio ginocchio un rosario; più in là, è raffigurata una larga conchiglia, la nostra merelle,
che tiene fissata su di essa e legata per mezzo di alcune bande a spirale, una
massa non meglio identificata. Il fondo del cassettone che reca quest'immagine,
ripete quindici volte il simbolo grafico che permette l'esatta identificazione
del contenuto della conchiglia. Lo stesso segno, — sostituito al nome della
materia, — appare li vicino, molto più grande, questa volta, e al centro d'una
fornace ardente. In un'altra figura ritroviamo il bambino, — ci pare che
sostenga il ruolo dell'artista, — con i piedi posti nella concavità dell'ormai
nota merelle mentre getta davanti a
sé delle piccole conchiglie, provenienti, cosi ci sembra, dalla grande.
Noteremo anche: il libro aperto
divorato dal fuoco; la colomba con
l'aureola, raggiante e fiammeggiante, emblema dello Spirito; il corvo igneo appollaiato sul cranio che sta beccando, composizione di
figure di morte e di putrefazione; l'angelo «che fa girare il mondo» come se fosse una trottola, soggetto ripreso e
sviluppato in un piccolo libretto intitolato: Typus Mundi * (* Typus Mundi
in quo ejus Calamitates et Pericula nec non Divini, humanique Amorrs
antipathia. Emblematice proponimtur a RR. C.S.I.A. Antuerpiae. Aoud Joan.
Cnobbaert, 1627.) opera di alcuni Padri Gesuiti; la calcinazione filosofica,
simbolizzata da una granata sottoposta all'azione del fuoco in un vaso d'oreficeria, sopra il corpo
che si calcina si vede la cifra 3 seguita dalla lettera R, che indicano
all'artista la necessità delle tre
ripetizioni dello stesso procedimento, sul quale abbiamo più e più volte
insistito. Infine l'ultima immagine rappresenta il ludus puerorum, spiegato nel Vello
d'oro di Trismosin e raffigurato nello stesso identico modo: un bambino dal
viso ilare gioca col suo cavallo di legno, tenendo alta la frusta (tav. XLV).
Abbiamo
terminato l'elenco dei principali emblemi ermetici, scolpiti sul soffitto della
cappella; chiuderemo l'argomento con l'analisi d'un pezzo assai strano e
singolarmente raro.
Scavata nel muro, vicino alla finestra, una
piccola nicchia del XVI secolo attira gli sguardi sia per la sua bella
decorazione che per il mistero dell'enigma considerato indecifrabile. Nessuno, ci
dice il nostro cicerone, è mai riuscito a fornire una spiegazione. Questa
lacuna deriva certamente dal fatto che nessuno ha capito né quale scopo avessero
i simboli di tutta le decorazione, né quale scienza si nascondesse sotto quei
molteplici geroglifici. Il bel bassorilievo del Vello d'oro, che avrebbe potuto essere preso come guida, non è
stato considerato nel suo vero significato: è restato, per tutti, un'opera a
carattere mitologico nella quale è lasciato libero corso all'immaginazione
orientale. Eppure anche questa nicchia reca l'impronta alchemica, che, in
quest'opera, abbiamo abbondantemente descritto in tutti i particolari (tav. XLVI).
Infatti sulle lesene che reggono l'architrave di questo tempio in miniatura,
scopriamo, immediatamente al di sotto dei capitelli, gli emblemi consacrati al mercurio filosofale; la «merelle»,
conchiglia di san Giacomo, o acquasantiera, sormontata dalle ali e dal tridente
attributo del dio marino Nettuno. Si tratta sempre della stessa indicazione del
principio acqueo e volatile. Il frontone è costituito da una grande conchiglia
decorativa che serve da basamento a due delfini simmetrici e legati,
all'estremità, all'asse della composizione. Tré granate avvolte dalle fiamme
completano la decorazione di questa credenza simbolica.
L'enigma è
composto da due parole: RERE, RER, che sembra non abbiano alcun senso e sono,
ambedue, ripetute per tre volte sul fondo
concavo della nicchia.
Già in base a
questa semplice disposizione, possiamo scoprire un'indicazione preziosa, quella
delle tre ripetizioni d'una sola ed
unica tecnica celata sotto la misteriosa espressione RERE, RER. Ora, le tre granate ignee del frontone
confermano questa tripla azione d'un medesimo procedimento, e, poiché esse
rappresentano il fuoco corporeo di
quel sale rosso chiamato zolfo filosofale, noi capiremo
facilmente che si deve ripetere tre volte
la calcinazione di questo corpo per realizzare le tre opere filosofìche, secondo la dottrina di Geber. La prima operazione
ci procura lo Zolfo, o medicina del
primo ordine; la seconda operazione, assolutamente simile alla prima, ci da l’Elisir, o medicina del secondo ordine,
che è diversa dallo Zolfo solo per qualità e non per sua natura; infine la
terza operazione, eseguita come le prime due, ci da la Pietra filosofale, medicina del terzo ordine, che contiene in sé
tutte le virtù, le qualità e le perfezioni dello Zolfo e dell'Elisir
moltiplicate in potenza ed in estensione. Se ci viene chiesto, ancora, in che
cosa consiste e come si esegue questa triplice operazione della quale abbiamo
appena spiegato i risultati, rinvieremo il richiedente al bassorilievo del
soffitto, nel quale si può vedere una granata
che si arrostisce in un certo vaso.
Ma in qual
modo si può decifrare l'enigma delle due parole prive di senso? — In un modo
molto semplice. RÈ, ablativo latino di res,
significa la cosa, considerata per
quel che riguarda la materia che la compone; poiché la parola RERE è
l'accostamento di RE, una cosa, e RE,
un'altra cosa, tradurremo con
l'espressione due cose in una, oppure
una cosa duplice; così RERE sarà
l'equivalente di RE BIS. Aprite un dizionario ermetico, sfogliate qualsiasi
opera che tratti d'alchimia e troverete che la parola REBIS, usata
frequentemente dai Filosofi, caratterizza il loro compost o amalgama, pronta a subire le successive metamorfosi per
l'azione del fuoco. Riassumiamo. RE, una materia secca, oro filosofico; RE, una materia umida, mercurio filosofico; RERE o REBIS, una materia duplice,
contemporaneamente umida e secca, amalgama di oro e di mercurio filosofico,
combinazione che ha ricevuto dalla natura e dall'arte una duplice proprietà occulta, equilibrata esattamente.
Vorremmo
essere altrettanto chiari nella spiegazione della seconda parola RER, ma non ci
è permesso di rompere il velo di mistero che la ricopre. Nondimeno, per
soddisfare, nei limiti del possibile, la legittima curiosità dei figli
dell'arte diremo che queste tré lettere contengono un segreto d'importanza
capitale che si riferisce al vaso
dell'Opera. RER, serve a cuocere, ad unire radicalmente ed
indissolubilmente, a provocare le trasformazioni del compost RERE. Ma come si
potrebbero dare indicazioni sufficienti senza divenire spergiuro? — Non
fidatevi di ciò che dice Basilio Valentino nelle sue Douze Clefs, e guardatevi bene dal prendere alla lettera le sue
parole, quando pretende che «chi possiede la materia troverà ben un recipiente
in cui cuocerla». Noi, al contrario, affermiamo, — e si può aver fiducia nella nostra
sincerità, — che sarà impossibile ottenere il benché minimo successo nell'Opera
se non si conosce perfettamente che cosa sia il Vaso dei Filosofi ne con quale materia dev'essere fabbricato.
Pontanus confessa che prima di conoscere questo recipiente segreto aveva
ricominciato lo stesso lavoro più di duecento volte, ma senza successo, sebbene
lavorasse con i materiali adatti e
convenienti e secondo il metodo giusto. L'artista deve fare da sé il
proprio recipiente; è una massima dell'arte. Di conseguenza, non iniziate nulla
prima d'aver tutto perfettamente chiaro su questo guscio dell'uovo, qualificato
di secretum secretorum dai maestri
del medioevo.
Che cos'è
dunque RER? — Abbiamo visto che Re significa una cosa, una materia; R, che è la metà di RE, significherà dunque una mezza cosa, mezza materia. RER
equivale, cioè, ad una materia più metà d'un'altra o della sua propria. Notate
però che qui non si tratta di proporzioni ma di una combinazione chimica
indipendente dalle quantità relative. Per farci capire meglio, prendiamo un
esempio e supponiamo che la materia rappresentata da RE sia il realgar o solfuro naturale d'arsenico.
R, metà di RE, potrebbe essere, dunque, lo zolfo
del realgar od il suo arsenico,
queste due sostanze sono simili, o differenti, a seconda che ci si riferisca
allo zolfo e all'arsenico separati o combinati nel realgar. In tal modo, RER
sarà ottenuto dal realgar più lo
zolfo, che è considerato il componente per metà del realgar; oppure aggiungendo
l'arsenico considerato come l'altra metà del medesimo solfuro rosso.
Ancora qualche
consiglio; cercate per prima cosa RER, cioè il vaso. In seguito saprete
facilmente che cos'è RERE. La Sibilla, interrogata sulla definizione di
Filosofo, rispose: «È colui che sa fare il vetro.» Applicatevi dunque a
fabbricarlo secondo la nostra arte, senza tener conto dei procedimenti dei
vetrai. Sarebbe più istruttivo studiare i metodi dei vasai; guardate le tavole
di Piccolpassi* (* Claudius Popelin, Les
Trois Livres de l'Ari du Potier, del cavaliere Cipriano Piccolpassi.
Parigi, Librairie Internationale, 1861.), ne troverete una che rappresenta una colomba le cui zampe sono legate ad una
pietra. Non dovete forse, secondo l'eccellente parere di Tollius, cercare e
trovare il magistero in una cosa volatile?
Ma se non avete un vaso per trattenerla, in che modo potrete impedirle di
evaporare, di svanire senza lasciare il minimo residuo? Fate, quindi, prima il
vaso, e poi l'amalgama; sigillatelo con cura affinchè nessun vapore possa sfuggire;
scaldate il tutto secondo le regole dell'arte fino alla calcinazione completa.
Rimettete la porzione pura della polvere ottenuta nella vostra amalgama che
sigillerete ancora nello stesso vaso. Ripetete per la terza volta e non ci
ringraziate. I vostri ringraziamenti devono essere rivolti al Creatore. Per
noi, che non siamo che un punto di riferimento posto sulla grande via della
Tradizione esoterica, non reclamiamo nulla, ne ricordo, ne riconoscenza, dovete
soltanto preoccuparvi per gli altri quanto noi ci siamo preoccupati per voi.
La nostra
visita è terminata. Ancora una volta la nostra ammirazione, pensosa e muta,
interroga questi meravigliosi e sorprendenti paradigmi, il cui autore è rimasto
per tanto tempo sconosciuto ai nostri. Esiste forse un libro scritto da lui? —
Niente sembra indicarlo. Senza dubbio, seguendo l'esempio dei grandi Adepti del
medioevo, preferì affidare alla pietra, piuttosto che alla carta, la
testimonianza irrefutabile d'una scienza immensa della quale possedeva tutti i
segreti. Quindi è giusto, è equo che la sua memoria resti viva tra noi, che il suo
nome esca infine dall'oscurità e brilli, come un astro di prima grandezza, nel
firmamento ermetico.
Jean
Lallemant, alchimista e cavaliere della Tavola Rotonda, merita di prendere
posto attorno al santo Graal, e di comunicarsi insieme con Geber (Magister magistrorum), con Ruggero
Bacone (Doctor admirabilis). Eguale,
per l'estensione del suo sapere, al poderoso Basilio Valentino, al caritatevole
Flamel, è superiore ad essi per aver espresso due qualità, eminentemente
scientifiche e filosofiche, ch'egli portò al più alto grado di perfezione: la
modestia e la sincerità.
LA CROCE
CICLICA
DI HENDAYE
Piccola città
di frontiera dei paesi baschi, Hendaye raccoglie le proprie casette ai piedi
dei primi contrafforti pireneici. È racchiusa tra il verde oceano, il lago
Bidassoa, lucente e rapido, ed i monti erbosi. La prima impressione, a contatto
di quel suolo aspro e rude, è abbastanza penosa, quasi ostile. Sul mare,
all'orizzonte, la punta di Fontarabie, color ocra sotto la luce tagliente,
sprofonda nelle acque glauche e abbaglianti del golfo e a stento riesce a
rompere l'austerità naturale d'un luogo selvaggio. Tranne per il carattere
spagnolo delle proprie case, il tipo e l'idioma dei suoi abitanti, l'attrazione
tutta particolare d'una recente spiaggia, irta d'orgogliosi palazzi, Hendaye non
possiede nulla che possa attirare l'attenzione del turista, dell'archeologo o
dell'artista.
All'uscita
della stazione, un sentiero di campagna costeggia la strada ferrata e conduce
alla chiesa parrocchiale, posta nel centro della cittadina. Le mura nude,
affiancate da una massiccia torre, quadrangolare e tronca, si elevano su di un
sagrato rialzato di qualche gradino e bordato d'alberi dalla folta chioma. È un
edificio volgare, pesante, rimaneggiato, non interessante. Però, vicino al
transetto meridionale, si nasconde, sotto il verde fogliame del sagrato, una
semplice croce in pietra, altrettanto semplice quanto strana. Questa croce
ornava, un tempo, il cimitero e solo nel 1842 fu messa vicino alla chiesa, nel posto
che occupa ancor oggi. Almeno questo è quanto ci assicurò un vecchio basco,
che, per lunghi anni, aveva svolto le funzioni di sacrestano. Quanto
all'origine di questa croce, non se ne sa nulla e ci è stato impossibile
raccogliere la benché minima informazione circa l'epoca della sua erezione.
Tuttavia, basandoci sulla forma del basamento e su quella della colonna,
pensiamo ch'essa non dovrebbe essere anteriore alla fine del XVII secolo o
all'inizio del XVIII. Ma quale che sia la sua antichità, la croce di Hendaye,
con la decorazione del suo basamento, dimostra di essere il monumento più
singolare del primitivo millenarismo, la più rara traduzione simbolica del
chiliasmo, che ci sia mai stato dato d'incontrare. Si sa che questa dottrina,
prima accettata, poi combattuta da Origene, da san Dionigi di Alessandria e da
san Gerolamo, benché la chiesa non l'abbia mai condannata, faceva parte delle
tradizioni esoteriche dell'antica filosofia di Ermes.
L'ingenuità
dei bassorilievi, la loro esecuzione maldestra ci fanno pensare che questi
emblemi di pietra non sono opera d'un professionista dello scalpello e del
bulino; ma, lasciando da parte l'estetica, dobbiamo riconoscere che l'oscuro
artigiano che scolpi queste immagini possedeva una scienza profonda e delle
reali conoscenze cosmografiche.
Sul braccio
trasversale della croce, — una croce greca, — si nota l'iscrizione comune,
bizzarramente scolpita in rilievo e su due righe parallele, con le parole
attaccate le une alle altre; eccole trascritte, rispettandone la disposizione:
OCRUXAVES
P E S U N I C A
Certo, è facile ricostruire la frase ed il
significato ben noto: O crux ave spes unica. Tuttavia, se noi traducessimo da
persone inesperte, non si riuscirebbe a comprendere che cosa si dovrebbe
desiderare, dal basamento o dalla croce, ed una simile invocazione potrebbe
sorprendere. In verità, dovremmo spingere la disinvoltura e l'ignoranza a tal
punto da disprezzare le più elementari regole di grammatica; pes, nominativo maschile, vuole
l'aggettivo unicus, che è dello stesso
genere, e non il femminile unica. Sembrerebbe dunque che la deformazione della
parola spes, speranza, in pes, piede, per ablazione della
consonante iniziale, sia l'involontario risultato d'una assoluta mancanza di pratica
presso il nostro scalpellino. Ma l'inesperienza può veramente giustificare una
simile stranezza? Noi non possiamo ammetterlo. Infatti, il paragone tra i
motivi eseguiti dalla stessa mano e allo stesso modo dimostra l'evidente
preoccupazione per una normale distribuzione e l'accuratezza per la loro
disposizione ed il loro equilibrio. Perché l'iscrizione sarebbe stata eseguita
con meno scrupoli? Un suo attento esame permette di stabilire che i caratteri
sono precisi, se non eleganti, e che non si accavallano (tav. XLVII). Senza
dubbio il nostro artigiano li scrisse prima con il gesso o il carbone, e questo
schizzo deve necessariamente allontanare ogni idea d'un possibile errore
sopravvenuto durante la lavorazione. Ma poiché esso esiste, bisogna, di conseguenza,
che questo errore apparente sia, in
realtà, voluto. La sola spiegazione che possiamo invocare è quella d'un segno messo a bella posta, nascosto
sotto l'aspetto d'un'inspiegabile esecuzione sbagliata e destinato quindi a
risvegliare la curiosità dell'osservatore. Diremo, dunque, che secondo noi
l'autore scientemente e volontariamente dispose in quel modo l'epigrafe di
questa opera che ci colpisce.
Lo studio del
piedistallo ci aveva già illuminato, e sappiamo già in che modo, con l'aiuto di
qualche chiave, era meglio leggere l'iscrizione del monumento; ma vogliamo
mostrare ai ricercatori di quale aiuto possono essere, per risolvere i
significati nascosti, il semplice buon senso, la logica ed il ragionamento.
La lettera S,
che prende in prestito la forma sinuosa del serpente, corrisponde al khi (x)
della lingua greca e ne assume anche il significato esoterico. È la traccia
elicoidale del sole giunto allo zenit della sua traiettoria nello spazio, al
tempo della catastrofe ciclica. È un'immagine teorica della bestia dell'Apocalisse, del drago che
vomita, nei giorni del giudizio, il fuoco e lo zolfo sulla creazione
macrocosmica. Grazie al valore simbolico della lettera S, messa in posizione
errata a bella posta, comprendiamo che l'iscrizione dev'essere tradotta in
linguaggio segreto, cioè nella lingua
degli dei o quella degli uccelli
e che si deve scoprire il significato per mezzo delle regole della Diplomazia. Alcuni autori ed in
particolare Grasset d'Orcet, nell'analisi del Songe de Polyphile, pubblicata dalla Rivista Britannica, le hanno fornite abbastanza chiaramente tanto
da dispensarci dal parlarne ancora dopo di loro. Dunque, leggeremo in francese, lingua dei diplomatici, il
latino tale e quale come è scritto; poi, usando le vocali permutanti, otterremo
l'assonanza delle nuove parole che compongono un'altra frase della quale
ristabiliremo l'ortografìa e l'ordine dei vocaboli ed anche il senso letterale*
(* Nel testo: Il est écrit que la vie se
réfugie en un seul espace. N.d.T.): È
scritto che la vita si rifugi in un sol luogo* (* Dal latino spatium, preso nel significato di luogo,
posto, ubicazione, dategli da Tacito. Corrisponde al greco ….., radice ….., paese, contrada, territorio.),
apprendiamo cioè che esiste un paese nel quale la morte non toccherà gli
uomini, quando sarà il terribile momento del duplice cataclisma. Tocca a noi cercare,
poi, la posizione geografica di questa terra promessa, dalla quale gli eletti
potranno assistere al ritorno dell'età d'oro. Perché gli eletti, figli di Elia,
secondo le parole della Scrittura, saranno salvati. Perché la loro fede
profonda, la loro instancabile perseveranza nella fatica avrà fatto meritare
loro d'essere elevati al rango di discepoli del Cristo-Luce. Essi porteranno il
suo segno e riceveranno da lui la missione di ricollegare all'umanità rigenerata
la catena delle tradizioni dell'umanità scomparsa.
La faccia
anteriore della croce, — quella che ricevette i tre terribili chiodi che
fissarono al legno maledetto il corpo dolorante del Redentore, — è indicata
dall'iscrizione INRI, incisa sul suo braccio trasversale. Questa iscrizione
corrisponde all'immagine schematica del ciclo riportato sul basamento (tav.
XLVIII). Quindi siamo in presenza di due croci simboliche, strumenti del
medesimo supplizio: in alto, la croce divina, esempio del modo scelto per
espiare, in basso la croce del globo, che indica il polo dell’emisfero boreale e che individua nel tempo
l'epoca fatale di quest'espiazione. Dio Padre tiene in mano questo globo
sormontato dal segno igneo, ed i
quattro grandi secoli, — figurazioni storiche delle quattro età del mondo, —
hanno i loro sovrani rappresentati con lo stesso attributo: Alessandro,
Augusto, Carlomagno, Luigi XIV* (*I primi tre sono degli imperatori, il quarto
è soltanto rè, il Rè-Sole, ed indica in tal modo il declino dell'astro ed il
suo ultimo sprazzo di luce. È il crepuscolo che precede la lunga notte ciclica,
piena d'orrore e di spavento, «l'abominazione della desolazione».). Questo è
ciò che c'insegna l'epigrafe INRI, esotericamente tradotta da Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, ma che prende
in prestito alla croce il significato occulto: Igne Natura Renovatur Integra. Perché, presto, il nostro emisfero
sarà provato col fuoco e nel fuoco. Ed allo stesso modo con cui, per mezzo del
fuoco, si separano i metalli impuri dall'oro, cosi, dice la Scrittura, i buoni
saranno separati dai cattivi nel gran giorno del Giudizio. Su ognuna delle
quattro facce del piedistallo, si nota un simbolo differente. Su di una è
scolpita l'immagine del sole, su di un'altra quella della luna; sulla terza,
c'è una grande stella e sull'ultima una figura geometrica che, come abbiamo
appena detto, è lo schema adottato dagli iniziati per indicare il ciclo solare.
Si tratta d'una semplice circonferenza divisa in quattro settori da due
diametri, che s'intersecano ad angolo retto. I settori portano scolpita un'A
che li caratterizza, cosi, come le quattro âges*
(*Età. N.d.T.) del mondo; essi formano quindi un geroglifico completo
dell'universo, formato dai segni convenzionali del cielo e della terra, delle
cose spirituali e delle cose terrene, del macrocosmo e del microcosmo, e nel
quale si ritrovano riuniti gli emblemi maggiori della redenzione (croce) e del
mondo (circonferenza).
Nel medioevo,
dunque, si esprimeva la rotazione continua di queste quattro fasi del grande
periodo ciclico, per mezzo d'un cerchio diviso da due diametri perpendicolari;
ciascuna fase, generalmente, era rappresentata dai quattro evangelisti o dalla
loro lettera simbolica che era l’alfa
greca, e, più spesso, dai quattro animali evangelici che attorniavano il
Cristo, raffigurazione umana e vivente della croce. Quest'ultima composizione
tradizionale si trova assai di frequente nei timpani dei portali romanici. Gesù
è raffigurato seduto, con la mano sinistra appoggiata ad un libro, la destra
alzata nel gesto della benedizione, e separato dai quattro animali che gli
fanno corona dall'ellisse chiamata Mandorla
mistica. Questi gruppi scultorei, generalmente separati dagli altri da
ghirlande di nuvole, sono composti con le figure messe sempre nello stesso
ordine, come si può notare nelle cattedrali di Chartres (portale del rè) e di
Le Mans (portico occidentale), nella chiesa dei Templari di Luz
(Hautes-Pyrénées), in quella di Civray (Vienne), nel portale di Saint-Trophime
ad Arles, ecc. (tav. XLIX).
Scrive san
Giovanni : « Davanti al trono c'era anche un mare di vetro simile a cristallo;
ed in mezzo al trono ed intorno al trono, c'erano quattro animali pieni di
occhi sia davanti che di dietro. Il primo animale assomigliava ad un leone; il
secondo assomigliava ad una mucca; il terzo aveva il viso come quello di un
uomo, ed il quarto as somigliava ad un'aquila che vola* (* Apocalisse cap. IV, vv. 6 e 7.). » Questa relazione è simile a
quella di Ezechiele: « Io vidi dunque... una grossa nuvola ed un fuoco che la
circondava, e tutt'intorno uno splendore, in mezzo al quale c'era qualcosa di
simile al metallo che esce dal fuoco; ed in mezzo a questo fuoco si vedevano
riuniti quattro animali... E le loro facce rassomigliavano ad un viso di uomo;
e tutt'e quattro, a destra, avevano il muso d'un leone; e tutt'e quattro, a
sinistra, avevano il muso d'un bue; ed al di sopra tutt'e quattro avevano un
muso d'aquila* (* Cap I, vv. 4 e, 5, 10 e 11.)»
Nella
mitologia indù, i quattro settori uguali della circonferenza, formati dalla
croce, servivano di base ad una concezione mistica assai singolare. L'intero
ciclo dell'evoluzione umana è incarnato sotto l'aspetto d'una vacca, che
simbolizza la virtù, ed i suoi quattro zoccoli stanno ognuno su uno dei quattro
settori che raffigurano le età del mondo. Nella prima età, che corrisponde
all'età dell'oro dei Greci e che è chiamata Credayougam
o età dell'innocenza, la Virtù si
mantiene stabilente sulla terra: la vacca si appoggia completamente con i suoi
quattro piedi. Nel Tredayougam o
seconda età, corrispondente all'età dell'argento, la vacca s'indebolisce e si
tiene solo su tre zampe. Per tutta la durata del Touvabarayougam o terza età, corrispondente a quella del bronzo,
essa si riduce a due piedi soltanto. Ed infine nella nostra età del ferro, la
vacca ciclica, o l'umana Virtù, giunge al supremo grado di debolezza e di
senilità: si sostiene a fatica, in equilibrio su di un solo piede. È la quarta
ed ultima età, il Calyougam, età di
miseria, di disgrazia e di rovina.
L'unico
sigillo dell'età del ferro è quello della morte. Il suo geroglifico è lo scheletro
provvisto degli attributi di Saturno: la clessidra vuota, che indica il tempo
trascorso, e la falce, riproduzione del numero sette, che è il numero della
trasformazione, della distruzione, dell'annientamento. Il Vangelo di
quest'epoca nefasta è quello scritto sotto l'ispirazione di san Matteo. Matthaeus, in greco ……, deriva da ……, ……,
che significa scienza. Questo
vocabolo ha prodotto ….., ….., studio
conoscenza, da ….. imparare, istruirsi.
È il Vangelo secondo la Scienza, l'ultimo tra tutti, ma per noi il primo,
perché c'insegna che, tranne un piccolo numero d'eletti, noi dobbiamo perire
collettivamente. Per questa ragione l'angelo fu attribuito a san Matteo, perché
la scienza, la sola capace di penetrare il mistero delle cose, quello degli
esseri e del loro destino può dare all'uomo delle ali perché si elevi fino alla
conoscenza delle più alte verità e giunga fino a Dio.
CONCLUSIONE
Scire. Potere
Audere. Tacere.
ZOROASTRO
La Natura non apre a tutti, indistintamente,
la porta del santuario.
In queste pagine il profano scoprirà, forse,
qualche prova di una scienza vera e positiva. Noi però non pretenderemo
d'essere onorati dalla sua conversione, perché non ignoriamo quanto tenaci
siano i pregiudizi, e quanto sia grande la forza delle prevenzioni. Il
discepolo, tuttavia, ne ricaverà maggior profitto, a condizione che non
disprezzi le opere dei vecchi Filosofi, che studi, accuratamente, ed
approfondendoli, i testi classici, finché non abbia acquisito una sufficiente e
lucida visione che gli permetta di discernere i punti oscuri della tecnica
operatoria.
Nessuno può
pretendere di possedere il gran Segreto se non accorda la propria esistenza al
diapason delle ricerche intraprese.
Non è
sufficiente essere studioso, attivo e perseverante, se manca un solido
principio, che sia una base concreta, se l'entusiasmo smodato accusa la
ragione, se l'orgoglio tiranneggia il giudizio, se l'avidità si accresce alla
fulva luce d'un astro d'oro.
La Scienza
misteriosa ha bisogno di molta equità, di esattezza, di perspicacia
nell'osservazione dei fatti, d'uno spirito sano, logico e ponderato,
d'un'immaginazione viva ma senza esaltazione, d'un cuore ardente e puro.
Inoltre, essa esige la più grande semplicità e l'assoluta indifferenza nei
confronti delle teorie, dei sistemi, delle ipotesi che, generalmente, sono
ammessi senza dimostrazione, facendo fede sui libri o sulla reputazione dei
loro autori. Essa vuole che i suoi aspiranti imparino a pensare di più col
proprio cervello, e meno con quello degli altri. Essa pretende, infine, ch'essi
chiedano la verità dei suoi principii, la conoscenza della sua dottrina e la
pratica dei suoi lavori alla Natura, nostra madre comune.
Con
l'esercizio costante delle sue facoltà d'osservazione e di ragionamento, con la
meditazione, il neofito salirà i gradini che conducono al
SAPERE.
L'imitazione
ingenua dei procedimenti naturali, l'abilità unita all'ingegnosità, le luci
d'una lunga esperienza gli assicureranno il
POTERE.
Divenuto
realizzatore, avrà ancora bisogno di pazienza, di costanza, di volontà
incrollabile. Audace e risoluto, la certezza e la fiducia nate da una solida
fede gli permetteranno di
OSARE.
Infine,
quando il successo avrà consacrato tanti anni laboriosi, quando i suoi desideri
saranno esauditi, il Saggio, disprezzando le vanità di questo mondo, si
accosterà agli umili, ai diseredati, a tutti coloro che lavorano, soffrono,
lottano, si disperano e piangono quaggiù. Discepolo anonimo e muto della Natura
eterna, apostolo dell'eterna Carità, resterà fedele al suo voto di silenzio.
Nella Scienza, nel Bene, l'Adepto deve, per
sempre,
TACERE
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